Perché due terzi dei progetti di digital transformation falliscono? Le idee ci sono, i modelli di business si stanno ridefinendo, gli investimenti in ICT, seppure bassi rispetto alle medie europee, sono in crescita, eppure solo il 38% dei progetti ha raggiunto gli obiettivi prefissati: è quanto risulta dalla rilevazione che, come Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, abbiamo svolto insieme ad Assochange su 179 aziende di grandi dimensioni in Italia.
Un dato allarmante, che impone una profonda riflessione per dare una rapida sterzata a quel 62% di insuccessi.
La qualità (e quantità) degli investimenti non è una causa di insuccesso
Partiamo da un dato positivo: nelle medie così come nelle grandi e grandissime aziende, seppure con percentuali differenti, gli investimenti in digitale crescono. Dalle nostre rilevazioni su 212 CIO risulta che nel 2019 gli investimenti in questo ambito saranno superiori del 2,6% rispetto all’anno precedente e, sebbene questa percentuale possa sembrare un dato poco esaltante, non dimentichiamo che fino a 2 anni fa il saldo era negativo. L’accelerata, in termini di trend, quindi c’è e si vede.
Ma è un altro il dato veramente interessante: a fronte di questa crescita, che si riferisce alla spesa delle direzioni ICT, nel 47% dei casi si segnalano investimenti in digitale al di fuori della direzione ICT e aumentano le situazioni dove questo budget è comparabile se non addirittura superiore a quello destinato alla direzione tradizionalmente deputata a gestire questi investimenti.
È un dato che indica come le aziende stiano recependo la potente trasformazione in atto dove l’innovazione non è prerogativa di una divisione che fornisce qualche oggetto o applicazione per lavorare meglio, ma è un approccio al business che, per avere successo, deve pervadere tutta l’azienda.
È una trasformazione che travalica la direzione ICT la quale, per essere tra i protagonisti di questo fenomeno, deve cambiare paradigma, “dissolvendosi” nel business. Un paradigma che sta imponendo grandi cambiamenti nei sistemi informativi aziendali, ma che è recepito da un sempre maggior numero di aziende.
Scarso engagement delle persone, il vero problema
Se l’insuccesso non è imputabile alla quantità e distribuzione del budget o a una direzione ICT ancorata a vecchie logiche, non è neanche imputabile a una scarsa sponsorship da parte del top management (grande problema, ma spesso anche grande paravento, per i ritardi degli anni passati): dalla nostra rilevazione questa risulta infatti essere al terzo posto tra le 4 principali cause di fallimento.
Quindi? Quali sono i fattori che, secondo le stesse aziende, sono in cima alla classifica di queste cause? “Scarso engagement delle persone” e “Cultura non aperta al cambiamento” è la risposta.
In sostanza, le persone non sono a bordo nel processo di trasformazione e questo è un freno enorme perché colpisce al cuore quella che definiamo 4° Rivoluzione industriale.
Proprio nella trasformazione profonda del modo di lavorare, nel tipo di competenze e professionalità necessarie sta la differenza tra 3° e 4° Rivoluzione industriale: la digitalizzazione dei processi con l’introduzione degli ERP o altre applicazioni/tecnologie di supporto all’ottimizzazione delle attività poteva funzionare anche con una forzatura, imponendone l’utilizzo perché, in fondo, si trattava solo di strumenti che non andavano a incidere nel profondo, non richiedevano alle maggioranza delle persone di mettersi in gioco in profondità in termini di competenze e professionalità.
La 4° Rivoluzione industriale è una cosa completamente diversa che ha successo solo se le persone sono coinvolte e, infatti, dalla nostra analisi sono emersi 3 caratteristiche molto interessanti che distinguono le aziende che hanno maggiori tassi di successo:
- Coinvolgono le persone nel cambiamento (59% di successo vs 32%). Chi lavora in un’azienda deve percepire che adottando nuovi modelli organizzativi, nuovi strumenti, ma soprattutto guardando il proprio lavoro da una prospettiva diversa, avrà un beneficio diretto personale e sosterrà la competitività della propria azienda, quindi la propria sopravvivenza.
- Creano urgenza, ma senza indurre paura e ansia (52% vs 35%). È un equilibrio difficilissimo da raggiungere perché quando il livello di urgenza percepito travalica nell’ansia, il rischio di abbandono e frustrazione è elevatissimo. La capacità sta proprio nel trasmettere il senso di urgenza in modo che si trasformi in uno stimolo positivo; è così che l’azienda potrà trattenere i talenti migliori che si sentiranno realmente ingaggiati in un progetto.
- Investono in un’organizzazione agile (40% vs 25%). È un concetto di “agile” più ampio di quello cui normalmente ci si riferisce prendendo come spunto la metodologia Agile perché oltre a essere un’organizzazione che opera in un contesto di apprendimento continuo e cicli decisionali rapidi abilitati dalla tecnologia, si basa su una cultura centrata sulle persone e ingloba i concetti di azienda aperta (con tutti i temi dell’Open Innovation).
Come trasformare il 62% di fallimenti in casi di successo?
Torniamo quindi al nostro quesito iniziale: come dare una sterzata a quel 62% di insuccessi?
Diciamo subito che non ci sono facili ricette e, soprattutto, non c’è una ricetta valida per tutte le aziende. Quello su cui invece stiamo lavorando è un modello di riferimento, che ogni azienda riempirà poi dei propri contenuti sulla base delle proprie specificità, del settore in cui opera, del livello di maturità in termini di innovazione in cui si trova.
Un modello che si basa su 4 principi organizzativi dove a modelli tradizionali se ne sostituiscono di nuovi:
- Trasversalità al posto di specializzazione.
- Orchestrazione al posto di supervisione.
- Agilità al posto di linearità.
- Liquidità e apertura al posto di stabilità dei confini interi/esterni.
E quali sono gli ambiti sui quali bisogna lavorare per attuare questa sostituzione?
- Modello organizzativo.
- Competenze e cultura.
- Processi, metodologie e tool.
Non è questo il luogo per entrare nel dettaglio anche perché ciascun principio e ciascun ambito richiederebbe un articolo a sé, ma quello che mi preme sottolineare è che, una volta definita la propria strategia, bisogna adottare un criterio per misurane l’efficacia.
Misurare l’innovazione e conoscere gli errori da evitare
L’adozione del modello da noi definito porta vari benefici in termini di innovazione, conoscenza, apertura al cambiamento, coinvolgimento e soddisfazione, ma come misurare questi benefici? E, soprattutto, come ricondurli a benefici in termini di business e competitività?
Le aziende hanno una grande difficoltà a misurare, sia perché in Italia c’è scarsa cultura della misurazione sia perché oggettivamente si tratta di trasformazioni difficili da misurare, nelle quali i tradizionali parametri di riferimento si rivelano fallaci (qual è il ROI di un progetto se è in gioco la sopravvivenza stessa dell’azienda?).
Quello che stiamo cercando di dimostrare è che, a seconda del ciclo di trasformazione nel quale l’azienda si trova, i benefici possono riguardare dimensioni diverse perché la misurazione del successo o dell’insuccesso di un progetto di innovazione è molto articolata (difatti dalle nostre rilevazioni risulta che solo il 3% adotta un modello strutturato di misurazione mentre il 14% adotta alcune metriche che però devono essere consolidate).
Andando a indagare più in profondità questi due cluster vediamo una polarizzazione tra indicatori un po’ più tradizionali (Risultati economici e Consumo di risorse impiegate) e indicatori riconducibili alle nuove forme di organizzazione aziendale (Cultura aziendale e modello di leadership e Acquisizione di nuove conoscenze e competenze). I primi risultano più facili da misurare mentre i secondi, sebbene si riconosca un’importanza di misurazione mediamente alta, risultano i più difficili da misurare.
Il modello per misurare la maturità digitale di un’organizzazione si basa dunque sull’equilibrio tra due direttrici (come rappresentato in figura): Orientamento Strategico e Visione del management, su un asse, e Diffusione di competenze Digitali e Imprenditoriali, sull’altro. Chi non raggiunge questo equilibrio, in genere commette due errori:
- da una parte ci sono le aziende colte dall’ansia dell’urgenza della trasformazione che investono senza avere prima creato le basi e le competenze: in pratica poggiano l’innovazione su sabbie mobili, con una probabilità di fallimento elevatissima;
- dall’altra ci sono aziende che non hanno le idee chiare: fanno varie iniziative per diffondere la cultura del cambiamento, fanno workshop, hackaton ecc., ma non sono guidate una visione chiara e unificante della trasformazione. Qui forse spendi meno, sprechi più tempo che denaro, ma il fallimento è ugualmente garantito.
Bisogna cercare di rimanere all’interno della traiettoria rappresentata nel grafico, salti e switch non se ne possono fare. Non si può pensare di trasformare con una sostituzione radicale delle persone: oltre a un problema etico e ad essere costosissimo si perderebbe una delle chiavi del successo, la profonda conoscenza dell’azienda, dei suoi meccanismi, del settore in cui opera. E non si possono introdurre nuove competenze, lasciandole isolate dal resto dell’azienda, “pensatoi” ai quali è molto difficile dare concretezza. Deve esserci una compenetrazione tra esperienza e conoscenza, da un lato, e nuovi approcci e strumenti nonché nuove competenze dall’altro.
Sviluppare il DNA digitale delle persone e delle organizzazioni
Chiudo questo editoriale con una metafora che trovo illuminante. Gli studi più recenti del genoma umano hanno rivelato come il patrimonio genetico dell’uomo sia ben più ricco e complesso di quello che si immaginava fino a un decennio fa. Gli scienziati hanno dimostrato che non è il singolo gene, ma la loro rete che rende il genoma umano dinamico da cui ne deriva che, da un lato, ci sono in ogni essere umano miliardi di geni “silenti” che possono attivarsi o non attivarsi a seconda del contesto, dall’altro, che le cellule sono influenzate dal tessuto circostante: quando sono inserite in un tessuto sano, le cellule comunicano tra di loro, recepiscono i segnali positivi del tessuto che le circonda e ne vengono influenzate reagendo positivamente e attivando geni sopiti che consentono loro di evolvere; in caso contrario tendono a isolarsi e non evolvono.
Possiamo trasporre questa scoperta della genomica nell’organizzazione aziendale: bisogna essere in grado di attivare il DNA digitale che c’è nelle persone per ingaggiarle nel processo di trasformazione, ma questo è possibile se le persone non hanno paura del futuro, se non si sentono minacciate e inserite in un “tessuto” sociale e organizzativo malato. Di qui l’importanza di una People Strategy positiva e motivante, che riduca il senso di ansia e inadeguatezza delle persone, facendo loro capire che la rivoluzione digitale porta tantissime opportunità che possono essere colte anche a livello individuale.