Una volta c’era la Silicon Valley, oggi gli ecosistemi imprenditoriali votati all’innovazione tecnologica sono numerosi e distribuiti in varie geografie del pianeta: dalla cinese Shenzen, all’israeliana Tel Aviv, senza dimenticare l’indiana Gurugram (vecchio, e più conosciuto. nome: Gurgaon) o l’area di Tokyo, solo per citare le più conosciute.
Di conseguenza, molte aziende, già dagli anni ’80 per quanto riguarda la Silicon Valley, hanno installato in queste aree dei veri e propri distaccamenti dei propri centri di ricerca e sviluppo, interamente votati allo studio e sviluppo di soluzioni e prodotti innovativi. Una scelta di questo tipo, con tutto quello che comporta (come, per esempio, creare prototipi in zone molto lontane dalla sede centrale) è sempre stata una prerogativa delle grandi aziende multinazionali che si potevano permettere investimenti così impegnativi.
Più recente è invece la tendenza a stabilire degli “avamposti” per l’innovazione in queste aree per “annusare” l’aria che vi si respira, per accogliere i segnali sulle tendenze d’avanguardia e trasferire alla casa madre queste informazioni che dovrebbero dare poi i loro frutti con lo sviluppo di nuovi prodotti. Ma non sempre è così, il trasferimento di idee innovative non sempre si conclude con un successo e questi avamposti dell’innovazione si rivelano, di fatto, un fallimento.
Perché? Recentemente ho letto a questo proposito un interessantissimo articolo, Why Do Innovation Outposts Fail? di Felipe Monteiro. docente della Business School Insead, che illustra molto chiaramente quali sono i problemi che questi avamposti incontrano nel portare le loro idee all’interno dell’organizzazione e cerca di dare delle indicazioni per fare in modo che abbiano successo.
Il problema: mancano legami efficaci
L’autore, insieme ad altri ricercatori, ha realizzato più di 50 interviste semi-strutturate con manager di 18 multinazionali (con sede in Francia, Germania, Giappone, Svizzera e Regno Unito) che hanno aperto avamposti di innovazione nella Silicon Valley. Dalla ricerca sono emersi alcuni elementi di insuccesso di queste realtà a partire dal fatto che mancano i legami giusti tra chi si trova nell’avamposto e la sede centrale: “Gli avamposti dell’innovazione devono riportare i segnali sulle tendenze all’avanguardia in una multinazionale che ha processi consolidati da tempo. Per inviare il messaggio giusto, hai bisogno di ottimi messaggeri, persone in grado di mediare tra le nuove idee dirompenti e i metodi consolidati presso la sede centrale. C’è bisogno di broker efficaci”, scrive Monteiro.
Sono state così clusterizzate le caratteristiche dei broker inefficaci per scoprire la radice dei fallimenti arrivando a identificare 3 tipologie: i solitari, i naufraghi connessi e i turisti VIP.
La mancanza di connessione ad entrambe le estremità (avamposto e sede centrale) caratterizza i solitari che, paracadutati nella Silicon Valley non sono riusciti a creare relazioni forti nella nuova sede e, nel contempo, non hanno mantenuto legami stringenti con il quartier generale.
Completamente sintonizzati con la Silicon Valley, i naufraghi connessi mancano totalmente o quasi di connessione con la sede centrale: si tratta anche di persone di alto profilo che vengono completamente fagocitate nel nuovo ambiente innovativo, ma non riescono a trasferire, anche dal punto di vista culturale, le idee generate nell’avamposto.
I turisti VIP hanno invece un fortissimo legame con la sede centrale, spesso si tratta di top manager che però non hanno e non riesco a creare contatti di valore sul campo e con l’ecosistema imprenditoriale locale.
“Le connessioni profonde necessarie per legami forti richiedono un’enorme quantità di investimenti, tempo e impegno. I broker efficaci non possono essere creati dall’oggi al domani”, dichiara l’autore dell’articolo.
Come creare avamposti di successo
Gli autori della ricerca hanno sintetizzato alcuni elementi che possono aiutare le aziende a creare avamposti di successo:
- Definire uno scopo chiaro e adattabile: mai creare un avamposto “perché lo fanno i concorrenti”: lo scopo deve essere chiaro e anche adattabile in base alle evoluzioni dell’avamposto stesso.
- Impostare la giusta architettura per l’avamposto e il quartier generale: il borker deve avere una stretta relazione con i team di sviluppo della sede centrale in modo da dirigere lo sviluppo di prototipi o costruire business case che possano poi rappresentare rampe di lancio per la creazione di prodotti innovativi.
- Stabilire processi pertinenti: “Lo scopo strategico è come la facciata di un edificio, e i processi e la cultura sono le sue tubature e cablaggi”, scrive Monteiro citando A.G. Lafley, storico CEO di Procter &Gamble, per cui è necessario definire processi per trasmettere le idee dall’ecosistema alla sede centrale, per estrarre i problemi dalle business unit e saperli convogliare verso l’avamposto per la ricerca di soluzioni; garantire l’impegno dei vari livelli dell’organizzazione. Si tratta di attività che non possono essere lasciate al caso o all’improvvisazione.
- Instillare una cultura di collaborazione e di umiltà: “Quando le multinazionali stabiliscono avamposti dell’innovazione, devono chiedersi se sono davvero pronte a impegnarsi nell’innovazione aperta, che è una strada a doppio senso”, scrive il docente.
- Creare reti complementari: affinché gli avamposti funzionino le aziende devono affidarsi a broker con competenze e reti complementari, ma soprattutto non devono fare affidamento su un solo unico broker efficace: “Se quella persona se ne va o viene promossa, tutte quelle connessioni sudate si perdono di nuovo. Al giorno d’oggi, quando pensiamo all’innovazione, di solito pensiamo a big data, intelligenza artificiale o robot. Ma il fulcro del vero successo saranno sempre le relazioni umane, che richiedono tempo per svilupparsi e mantenersi”, conclude Monteiro.
Perché il volontariato fa bene alle competenze
Questa conclusione mi ha ricordato un altro articolo che avevo letto qualche mese fa sulla MITSloan Management Review: How Volunteerism Enhances Workplace Skills.
Non so perché mi sia venuto in mente proprio questo articolo (inutile cercare una spiegazione dei propri processi mentali), forse perché anche qui si parla di relazioni, sebbene l’ambito sia completamente diverso.
Trovo comunque interessante riportare alcuni stralci di questo articolo perché, in un mondo che è sempre più fluido, le idee si sviluppano con maggiore facilità e la creatività ha più possibilità di esprimersi nella contaminazione. E quale migliore contaminazione può esserci nell’occuparci di qualcosa che sia totalmente disconnesso dalla tradizionale logica “lavoro-remunerazione pecuniaria”?
Ma torniamo all’articolo che getta una luce diversa sul volontariato e il cui impianto portante si trova nell’introduzione: “Attrarre e trattenere i migliori talenti, aumentare il morale, aumentare la consapevolezza del marchio, restituire alla comunità: questi sono tra i motivi più comuni per cui le aziende supportano il volontariato dei dipendenti, spesso attraverso orari flessibili o permessi retribuiti. Ma sta emergendo una nuova logica: se gestita in modo appropriato, il volontariato per una causa di beneficenza può aiutare i dipendenti a sviluppare preziose capacità che possono essere utilizzate sul lavoro”.
In pratica, sostengono gli autori dell’articolo, le attività tradizionali di volontariato (servire in una mensa per i poveri o ripulire le spiagge dai rifiuti ecc.) tendono a sfruttare competenze o attitudini generali invece l’applicazione di competenze professionali in aree specializzate come marketing, gestione dei progetti e IT a favore di organizzazioni no profit spesso consente ai partecipanti di acquisire nuove competenze lungo il percorso.
Si tratta di un’attività che porta valore a tutte le parti coinvolte: datore di lavoro, organizzazione no profit e volontario. “Le organizzazioni non profit chiaramente guadagnano dall’infusione di risorse materiali e intellettuali per aiutarle a raggiungere le loro missioni. Le aziende beneficiano degli effetti successivi di un maggiore coinvolgimento dei dipendenti in termini di prestazioni individuali e organizzative” si legge nell’articolo che prosegue: “Diversi studi hanno scoperto che ci sono risultati positivi anche per i volontari. Ad esempio, quando i dipendenti applicano frequentemente le loro competenze professionali, trovano i loro incarichi di volontariato più preziosi e segnalano livelli più elevati di sviluppo delle competenze. E quando acquisiscono nuove competenze, sentono di avere maggiori probabilità di avere successo nel loro lavoro”.
Ma attenzione: se il lavoratore percepisce che il programma di volontariato basato sulle competenze promosso dalla propria azienda sia basato solo sul profitto (miglioramento delle prestazioni dei propri dipendenti), l’effetto rischia di essere controproducente perché va a minare lo scopo stesso del volontariato: dare, non guadagnare.
L’articolo fa riferimento a una ricerca per capire gli impatti dei programmi di volontariato basati sulle competenze e ne consiglio la lettura perché emergono aspetti molto interessanti. Sarebbe impossibile riassumere questi impatti in poche righe, ma possiamo senz’altro dire che si tratta di un equilibrio molto delicato, dove la molla che fa scattare, in azienda, il sostegno ad attività di volontariato non può essere utilitaristica.