Il futuro dell’Ict è “l’Internet delle cose”, come afferma l’organizzazione delle telecominicazioni, Itu – International Telecommunication Union? Sembrerebbe confermarlo il Prof. Alberto Sangiovanni Vincentelli, un emigrante illustre (attualmente The Edgar L. and Harold H. Buttner Chair of EECS University of California at Berkeley) che, nella sua presentazione svolta nel corso della seconda giornata dell’innovazione organizzata da Confindustria lo scorso marzo, ha illustrato le innovazioni promosse dall’Università di Berkeley. Si va dalla "polvere intelligente", ossia microprocessori che possono, per esempio, essere sparsi in un bosco per monitorare l’avanzamento di un incendio, ai sensori messi nel tappo di una bottiglia di vino per verificarne la conservazione e segnalare eventuali criticità, ai microchip inseriti nella gomma dei pneumatici, per misurarne l’aderenza reale in base alle forze d’attrito fra strada e pneumatico, fino a sensori posti sotto pelle per misurare gli sforzi di un malato, un disabile…
Niente di più falso, dunque, che sotto il cielo dell’Ict niente si muova, che l’It sia una commodity; in poche parole, la celebre affermazione contenuta in un ormai storico articolo di Nicholas G. Carr, comparso tre anni fa su Hardward Business Review, "IT Doesn't Matter”, e che secondo Fuggetta ha prodotto non pochi danni, andrebbe ribaltata in “It matters”.
L’idea diffusa che ormai l’Ict sia solo una commodity deriva da una visione ristretta all’informatica tradizionale che la vede esclusivamente come insieme di server, pc, reti, Erp. “L’Ict è questo, ma è anche molto di più- sostiene Fuggetta – E’ infatti quell’insieme di tecnologie di comunicazione, sensoristica, elettronica, microchip, memorie, software, connettività, che può consentire una reale innovazione soprattutto di prodotto”.
Il paese ha perso di competitività; la produttività è drammaticamente diminuita; non si fa abbastanza innovazione e si fa poca ricerca; non c’è collegamento fra università e imprese; le aziende usano poco e male l’Ict. Si tratta di affermazioni che sentiamo ripetere quotidianamente e che certo contengono una parte di verità, ma non riescono a contribuire a una vera svolta.
“Il vero problema – sostiene Fuggetta – è che creiamo sempre meno prodotti competitivi: continuiamo a riproporre prodotti ‘vecchi’ anziché fare cose nuove”.
Innovare diventa invece, per un paese come l’Italia, una necessità imprescindibile, come ha recentemente sostenuto Andrea Potremoli, presidente e ammnistratore delegato di Ibm, nel corso del lancio del Polo Ict Polaris di Pula (Cagliari). La motivazione sostenuta dal manager Ibm è che i modelli di successo a livello mondiale si stanno sempre più divaricando, verso il basso, dove premiano fattori di scala e bassi costi di produzione, verso l’alto, con prodotti e servizi che puntano all’eccellenza e alla qualità. In assenza delle condizioni che consentono la prima opzione, per l’Italia non resta che seguire la seconda via che presuppone innovazione continua.
Sostenere l’offerta: meno finanziamenti a progetti, più procurement strategico
Che ruolo deve dunque avere lo Stato per sostenere la necessità di sviluppo continuo dell’innovazione?
Matteo Colaninno, presidente dei giovani imprenditori di Confindustria, in un recente convegno organizzato da Istud (1) ha sottolineato che le scarse risorse di finanza pubblica andrebbero concentrate soprattutto sulla capacità di offerta, per incentivare prodotti competitivi sui mercati internazionali.
“In Italia – incalza Fuggetta – si sono sempre favorite politiche di sostegno alla domanda di prodotti e all’offerta di ricerca, invece di sostenere l’offerta di prodotti e la domanda di ricerca. Supportando la domanda di prodotti, in assenza di prodotti nazionali, la domanda si dirigerà sulle importazioni, mentre il sostegno all’offerta di ricerca, se mancano le aziende capaci di utilizzarla, finisce per contribuire allo sviluppo di prodotti di altri paesi. Lo dimostra il fatto che il risultato del lavoro fatto dai centri di ricerca italiani nei progetti europei viene alla fine sfruttato da aziende non italiane”. Spesso inoltre si invocano grandi progetti Paese per stimolare l’innovazione.
"La domanda pubblica, se ben gestita, può essere un motore di crescita per le imprese. Ma la condizione è che ci sia un vero piano strategico. E dunque è preferibile parlare di ‘procurement strategico’, che vede lo Stato comprare prodotti e servizi che effettivamente gli servono”, sostiene Fuggetta, portando ad esempio il caso del ‘Pendolino’ commissionato dalle Ferrovie dello Stato per rispondere a un loro bisogno, ordinando un mezzo innovativo a una azienda leader nel settore, come Fiat, che ha sviluppato un prodotto di successo a livello mondiale.
L’It come leva per prodotti e servizi innovativi
Ma torniamo al tema centrale di come si declina l’innovazione attraverso la capacità dell’Ict di abilitare la creazione di nuovi prodotti e servizi più attraenti e funzionali. E dunque non solo l’Ict per ottimizzare e rendere più efficienti i processi, ma per rivitalizzare i prodotti e i servizi che possono presentarsi più competitivi sullo scenario internazionale.
“Il primo ostacolo è l’approccio tipico del manager italiano che continua a vedere l’It come tecnologia tradizionale e dunque come un costo tendenzialmente da ridurre; un approccio che deve essere modificato”, ricorda Fuggetta. Certo, tutti siamo stati scottati dalla bolla Internet, ma è ora di riscoprire che dietro la bolla c’era il valore, come molti altri altri Paesi hannogià fatto. “In Italia invece anche quando ci si interessa a nuove aree applicative ci si focalizza su aspetti più superficiali, come la Tv mobile, che magari avrà successo, senza comprendere la rilevanza di inserire la tecnologia nella vita e negli oggetti di tutti i giorni – sostiene ancora Fuggetta – Il problema del sistema paese di rinnovare la produzione si può risolvere solo se facciamo prodotti più intelligenti, sofisticati, con maggiore valore aggiunto”.
Quali attori per l’innovazione di prodotto?
Uno degli argomenti che più spesso viene proposto per spiegare la crisi dei processi di innovazione e soprattutto del carente rapporto università-imprese è la mancanza di strutture che riescano a ricomporre la divaricazione fra questi due mondi. Le ragioni di tale divaricazione sono evidenziate nella figura dove l’asse delle ascisse rappresenta la progressione dal mondo della ricerca alla messa sul mercato di un prodotto/servizio, mentre l’asse delle ordinate rappresenta il ruolo giocato da una struttura in una specifica fase.
Figura – La divaricazione del rapporto università-imprese
Il ruolo dell’università, molto alto nelle prime fasi (ricerca di base e in parte ricerca applicata), si attenua fino a scomparire nel momento del prototyping e dell’industrializzazione. Al contrario, le imprese tendono ad entrare nel processo di creazione di nuovi prodotti piuttosto tardi. Il gap tra università e imprese è quindi legato a differenze profonde di missione e di struttura, come evidenzia la scarsa significatività dell’intersezione delle due curve.
Quando poi l’obiettivo sia impiegare l’Ict nell’innovazione di prodotti tradizionali, i ricercatori del mondo della tecnologia si trovano di fronte a una complessità ben maggiore rispetto a quello che dovrebbero affrontare operando con aziende Ict. Devono capire non solo se le tecnologie sviluppate sono adatte, ma soprattutto, insieme con gli interlocutori, devono saper interpretare qual è il loro bisogno finale, cosa fornisca maggior competitività, quali siano i punti di criticità dell’azienda rispetto al settore.
Chi fa ricerca e innovazione (le università, ma anche le aziende di consulenza strategica) deve avere una visione a 360 gradi, deve cambiare l’approccio, da una logica di ‘technology push’, cercando invece di partire dal bisogno dell’interlocutore, e sviluppando la capacità di stimolare una domanda intelligente, compito arduo, soprattutto con le Pmi, sia sul terreno culturale sia su quello delle risorse economiche.
Lavorare insieme serve inoltre per coagulare i problemi di un settore: i produttori di una zona possono riuscire, per esempio, a indicare non tanto la soluzione tecnologica, quanto almeno problemi concreti e strategici che stanno affrontando.
Il modello Cefriel
Cefriel ha messo a punto un modello che va ad integrare il background universitario con l’organizzazione aziendale sviluppando la capacità di lavorare in team, formando professionisti capaci di lavorare su un progetto, definendo tempi, costi, affidabilità richiesti da un’impresa.
“E’ importante adottare un modo di operare che superi la logica ‘technology push’ tipica di chi fa ricerca, in favore di una logica ‘demand driven’ a cui si somma la capacità di lavorare in modo multidisciplinare a differenza del modello universitario dove ognuno offre quanto di meglio ha prodotto nella sua specifica area – sottolinea Fuggetta – L’innovazione si fa lavorando su un progetto comune, non acquistando a scatola chiusa un brevetto. Il vero modo in cui si fa trasferimento tecnologico e innovazione è lavorare insieme”.
E poiché l’obiettivo è convincere le Pmi a fare innovazione, ci si deve attrezzare anche collaborando con organizzazioni di categoria, Camere di Commercio…
Ma soprattutto è importante che un’organizzazione che fa da raccordo fra ricerca e imprese sopravviva in quanto fa cose utili o non solo perché i progetti vengono finanziati a livello pubblico.
(1) “Le sfide per l’Italia. Competitività, innovazione, leadership”, con il sostegno di Fiat e Anpei
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