La delocalizzazione delle attività produttive verso i paesi asiatici o dell’Europa orientale ha contraddistinto le scelte industriali degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale fino a 5-6 anni fa, ma è dalla fine del primo decennio del 2000 che ha incominciato a manifestarsi un’inversione di tendenza (anche come conseguenza della crisi che ha duramente colpito i paesi occidentali a partire dal 2008) e si sta diffondendo il fenomeno del “back-shoring” ossia la ricollocazione della produzione aziendale nel territorio d’origine: “Dieci anni fa potevamo parlare di casi isolati e controcorrente, oggi si sta invece affermando un vero trend di back-shoring a livello globale” ha spiegato Luciano Fratocchi, docente di Ingegneria economico gestionale all'Università dell'Aquila, basandosi sui dati elaborati dal gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Back-reshoring delle Università di Catania, L'Aquila, Udine, Bologna, Modena e Reggio Emilia che indaga il fenomeno del back e near-reshoring delle attività di produzione manifatturiera.
Si tratta di un Osservatorio permanente sul fenomeno a livello globale che oggi conta una banca dati di circa 500 evidenze (si intende per evidenza la ricollocazione di una produzione – anche quelle esternalizzate – dell’intera gamma di prodotti o di una sola linea, per cui le aziende coinvolte sono poco più di quattrocento): “Purtroppo non esistono dati statistici ufficiali, perché non ci sono istituti o enti che monitorano in maniera scientifica la tendenza alla ricollocazione delle attività produttive, tranne in Germania e negli Stati Uniti dove ci sono indagini ad hoc. Riteniamo quindi che il fenomeno possa essere sottostimato, anche perché spesso le imprese non hanno interesse a far sapere che “sono tornate” , dato che dovrebbero ammettere di aver precedentemente delocalizzato. Ciononostante, – evidenzia Fratocchi – anche se rispetto al numero di aziende che hanno delocalizzato negli ultimi 20-30 anni quelle investite dalla tendenza contraria rappresentano un numero sostanzialmente limitato, l’aspetto importante è l’inversione di tendenza”. Negli Usa, nel 2014, le stime indicano che, per la prima volta, il numero di posti di lavoro che vengono persi a causa di strategie di delocalizzazione sarà inferiore o uguale a quello dei posti riacquistati grazie alla re-localizzazione: “In Europa il fenomeno non è così forte, ma in alcuni paesi il re-shoring sta perlomeno consentendo di non perdere posti di lavoro”, precisa Fratocchi.
Per quanto riguarda l’Italia, stiamo parlando di circa 80 aziende, il 70% delle quali dal 2007 ad oggi ha deciso di far rientrare interamente o parzialmente le attività produttive nel nostro paese: “La maggior parte delle operazioni riguarda il settore del vestiario e delle calzature [con nomi dell’eccellenza italiana come Nannini o Prada – ndr], tornate dalla Cina, da altri paesi asiatici e dall'Est Europa, seguite dalle operazioni di aziende del settore meccanico [anche in questo caso, nomi come Fiamm o Bonfiglioli sono sicuramente rappresentativi – ndr], tornate principalmente dall'Europa occidentale e da quella dell'Est, oltre che dalla Cina”. Ma quali sono le ragioni principali di questi ritorni? L’osservatorio di Uni-Club MoRe back-reshoring ha clusterizzato in cinque gruppi (costi, prodotto, marketing e vendite, politica industriale, organizzazione aziendale) le motivazioni e in figura vediamo la classifica delle 10 principali (complessivamente le motivazioni clusterizzate sono 26) a livello globale.
Dalle interviste specifiche realizzate tra gli imprenditori italiani, risulta che, per il 42%, la ragione principale del ritorno è l'effetto positivo che ha il made in Italy sul consumatore, associato a prodotti di buona manifattura; il 24% ha indicato lo scarso livello di qualità della produzione off-shored; mentre la terza ragione (per il 21%) è la necessità di un'attenzione maggiore verso i bisogni del clienti; per il 18% la pressione sociale; per il 16% il fatto che ci sia un più elevato livello di competenze in Italia; per il 13% la disponibilità di capacità produttiva a seguito della crisi economica e la riduzione del divario del costo del lavoro; infine, per l'11%, minori costi logistici.
Tornando ai dati globali, sebbene rappresenti solo la 9° in ordine di importanza, è interessante segnalare quel 7,7% che indica motivazioni relative a strategie di politica industriale pro-reshoring messe in atto nel paese di origine. Nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2012, il Presidente Obama, infatti, dichiarava: “Il mio messaggio ai business leader è semplice: chiedetevi cosa potete fare per riportare lavoro nel vostro paese e il vostro paese farà di tutto per fare in modo che questo possa avvenire”. E per quanto riguarda l’Unione Europea, il back shoring è considerato uno degli strumenti attraverso i quali raggiungere l’obiettivo “20-20” ovvero di arrivare al 20% del Pil derivante da attività manifatturiere entro il 2020 (attualmente siamo attorno al 16%).
I dati elaborati dal gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Back-reshoring, come abbiamo visto, riguardano sostanzialmente l’ambito manifatturiero, ma rappresentano un indicatore importante soprattutto per quel che riguarda il miglioramento del servizio al cliente (che nel caso di servizi Ict a maggior valore, come l’application management per esempio, rappresenta anche l’utente aziendale interno) che rappresenta la terza motivazione a far rientrare queste attività in Italia.
Rimandiamo alla lettura del White Paper “Il Nearshoring made in Italy. Opportunità e vantaggi”, realizzato da NetConsulting, per un approfondimento sull’esternalizzazione dei servizi di application management e system building nel quale vengono evidenziate le ragioni di una tendenza che vede, anche in questo campo, un ritorno all’utilizzo di realtà presenti sul territorio italiano e un progressivo abbandono di esperienze in India o in alcuni paesi dell’Est Europa. Di fatto è la centralità del cliente a rappresentare un forte incentivo anche nella scelta del luogo di esternalizzazione delle attività di sviluppo e gestione delle applicazioni. Un approccio user centrico è tale solo se permea tutto il ciclo di vita dell’applicazione, dalla fase di analisi dei requisiti, allo sviluppo, al testing fino alla distribuzione dell’applicazione stessa: è quindi richiesto un costante confronto tra i diversi team (da quelli di sviluppo alle operation, ma anche con le linee di business) che collaborano alla realizzazione di un’applicazione e la vicinanza territoriale (che significa anche culturale e linguistica) della società verso la quale servizi di sviluppo e gestione applicativa vengono esternalizzati può rappresentare un valore non secondario, soprattutto in un contesto competitivo dove la velocità di realizzazione è altrettanto importante della qualità del servizio offerto.