E’ davvero acceso il dibattito, in corso ormai da alcuni anni, sul modello di sviluppo sociale ed economico che potrà caratterizzare l’organizzazione del nostro domani.
Il tema di nuovi modelli di crescita e di sostenibilità ha subìto un’inevitabile accelerazione nell’ultimo periodo a causa del perdurare della diffusa crisi economica, per alcune aree del pianeta, e di un modello di produzione basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse, umane e naturali, per un altro gruppo di nazioni. Entrambe le strade hanno messo in luce la fragilità dei criteri economici su cui, soprattutto i paesi occidentali, e da qualche anno anche quelli cosiddetti “in via di sviluppo”, hanno incentrato la propria organizzazione e il proprio sviluppo.
I principali economisti teorizzano modelli di crescita, a seconda delle diverse prospettive “politiche” e culturali, chi più liberista chi più con una priorità di maggiore equilibrio sociale, prendendo atto di due fallimenti: quello legato all’utopia socialista e quella dello sfrenato liberismo basato sullo sfruttamento di risorse e persone, nonché consumo, finalizzato solo all’accumulazione di capitale. Il dibattito è oggi invece incentrato sulle forze che possono bilanciare non solo queste due visioni, ma soprattutto dare nuovi indirizzi (leggi, norme, investimenti, piani di sviluppo) che mettano al centro in primis una “crescita sostenibile”, una maggiore responsabilità nei confronti del benessere sociale, da cui derivare, ancora, crescita economica.
Per i prossimi mesi, ragazzi, abbiamo di che leggere: Mariana Mazzuccato, con il suo saggio “Lo Stato innovatore”; Thomas Piketty, con il suo “Il Capitale del XXI secolo”, per il quale due premi nobel per l’economia come Paul Krugman e Joseph Stiglitz si sono spesi parole importanti. La prima, la Mazzucato, è un’economista studiosa dell’evoluzione dei sistemi economici, con un orientamento Schumpeteriano, che il mondo ci invidia. Docente di economia alla prestigiosa Università del Sussex dopo una notevolissima carriera negli Stati Uniti, sostiene una tesi che rappresenta una forte risposta al fallimento della “terza via”, quella sintesi tra socialismo e liberismo che, come vedremo più avanti, si è dimostrata fallimentare, L’economista sostiene la centralità del ruolo dello Stato come soggetto innovatore, non una struttura pesante, burocratica e avvitata su se stessa, bensì fulcro di indirizzo strategico di innovazione, motore per l’aggregazione di imprese private orientate all’innovazione.
Piketty, sostiene invece, nell’analizzare le dinamiche di accumulo di ricchezza, ma anche di ineguaglianza, che se da un lato la diffusione del sapere ha evitato fino ad oggi le disuguaglianze drammatiche sul piano sociale profetizzate da Marx (da qui il titolo del saggio di Piketty), dall’altro lato non siamo stati ancora capaci di modificare e aggiornare le strutture profonde del capitale e dell’ineguaglianza, a tal punto che per il futuro questo disallineamento potrebbe portare una seria minaccia alle strutture democratiche dei paesi, per il diffuso malcontento delle persone e la loro impossibilità di sostenere gli attuali livelli di spesa.
Ma i criteri di sviluppo, centrati soprattutto sulla ricerca continua di crescita economica – afferma sempre Piketty – non sono immutabili e linee politiche, nello sviluppo più ampio del termine (culturali, sociali, economiche, di qualità della vita) possono intervenire su questi disallineamenti.
Ho letto di recente un’interessante intervista a Massimo D’Alema. La critica alla linea politica di Renzi si basa su una piattaforma ideologica, da parte del governo, di una Terza via renziana (un liberismo con uno spruzzo di sinistra) che rappresenta un’esperienza tentata almeno 15 anni fa. Fu infatti la sinistra di governo di allora che introdusse le grandi privatizzazioni, ridusse la presenza statale nell’economia, lanciò le liberalizzazioni, intervenne su un mercato del lavoro con la produzione di forme contrattuali “arrembanti” che sfociarono poi non in una vera flessibilità ma in un precariato diffuso. Il limite di quell’esperienza, sostiene D’Alema, fu un’interpretazione sbagliata della globalizzazione, con la sua ideale, ma fallace, idea di crescita diffusa e continua. Al rallentare dell’economia, sono emerse forti diseguaglianze sociali e un paese, l’Italia, dall’instabilità strutturale. Nel senso che è emersa totalmente l’inadeguatezza e la debolezza della politica, da un lato, e la carenza totale di indirizzi strategici e di azione pubblica dall’altro. E’ Obama, non un pericoloso bolscevico, a incalzare oggi la Merkel sulla richiesta di allentare il rigore economico e finanziario europeo e investire in una prospettiva strategica di innovazione. Altrimenti l’Europa non potrà farcela. “Le politiche di austerità fine a se stesse – dice Mazzucato – si stanno dimostrando controproducenti nei loro sforzi per ridurre il rappordo debito/Pil perché penalizzano la domanda di consumi, con conseguenti cali di produzione, nonché erodono al tempo stesso la fiducia delle imprese, disincentivandole dall’investire”. La Silicon Valley, tempio dell’imprenditorialità e dell’innovazione tecnologica attraverso un sistema di start up che trovano spazi di crescita e affermazioni oggi a livello mondiale a tal punto intervenire sui criteri di sviluppo economico e di business (Business technology, application technology, sharing economy, mobile economy, ecc) è il frutto di ingenti investimenti guidati, nei suoi indirizzi fondamentali, leggi, agevolazioni, focalizzazioni strategiche di lungo periodo, dal settore pubblico. Quando Jobs, nella sua celeberrima Lectio Magistralis ai giovani studenti di Stanford pronunciò la famosa frase conclusiva del suo speech“Stay hungry, stay foolish”, si riferiva alla propria esperienza di sviluppo imprenditoriale eccezionale, sicuramente, ma sull’onda di innovazioni finanziate e indirizzate in buona parte dallo Stato.
La tesi che si va proponendo oggi è che un intervento “meccanicistico e riparatore” da parte dei governi, fatto soprattutto di riforme strutturali e rigore finanziario, non sarà sufficiente. Serve un soggetto pubblico di riferimento, che abbia la forza di sostenere massicci investimenti, e con una visione di medio-lungo periodo che nessuna azienda privata può avere nel tempo, in quelle aree fondamentali per creare il tessuto nel quale le imprese possano poi operare e crescere. “Questi investimenti – sostiene l’economista italiana – uniti a sistemi di innovazione istituzionali che promuovono collegamenti tra aree fondamentali come la scienza e l’industria, sono un elemento centrale per la competitività di un paese e per la sua crescita sociale e di qualità di vita dei suoi cittadini”. “La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”. E’ la Mazzucato? No era Keynes che lo diceva, ed era il 1926. A proposito di visione strategica!
E’ solo attraverso una visione esaltante dello stato come soggetto innovatore, aggregatore e “appealing” per attrarre competenze e talenti che si può, accanto alle necessarie capacità e regole burocratiche e amministrative (snelle, possibilmente), creare competenze specifiche, tecnologiche, in rapporto ai diversi settori identificati come strategici per lo sviluppo del paese. E’ la Darpa, l’Agenzia del Dipartimento per la Difesa americana, che ha inventato Internet, riuscendo ad attirare talenti in un clima di entusiasmo nello sviluppo di una infrastruttura strategica. A tutto questo sovraintende un fondamentale tema di governance, per gestirei piani di investimento, trovare regole e sistemi di monitoraggio efficaci, riqualificando le competenze della pubblica amministrazione, centrale e locale.
E qui ci avviciniamo alla nostra realtà, quella italiana, quella del nostro Stato e della nostra Pubblica amministrazione. Se non ci sarà un’investitura “politica” di questo ruolo che lo Stato dovrà assolvere, Stato innovatore, aggregatore, erogatore di indirizzi strategici, con competenze e modelli attuativi e di governance progettuale efficaci, se non ci sarà questo non riusciremo a intervenire su uno sviluppo strutturale, cosa che già oggi ci sta penalizzando rispetto ad altri paesi che invece questa cultura in parte l’hanno costruita nel tempo.
Però non disperiamo. Come ZeroUno abbiamo più volte avuto occasioni di incontro anche con Cio e dirigenti della Pubblica amministrazione. Persone illuminate (non tutte, ovviamente, come in tutti i settori), costrette a muoversi in un sottobosco complesso, conflittuale, il più delle volte deresponsabilizzante e quasi mai orientato al cittadino perché il più delle volte autoreferenziato. Eppure fior di progetti si sono realizzati negli anni grazie alla presenza di intelligenze. Oggi si coglie, anche all’interno della PA, un senso di urgenza, una volontà di smuovere l’immobilismo attuale per la consapevolezza del rischio che corriamo come Paese, per noi e per chi verrà dopo. Crediamoci a questo. C’è la volontà di porre il cittadino al centro, definire responsabilità dei diversi organismi, assicurare una governance di sistema e accelerare il passo dell’innovazione superando burocratismi e concorrendo ad abbatterli. Qualcosa sta cambiando. Una governance dell’innovazione, dopo le numerose false partenze dell’Agenda Digitale, è l’obiettivo chiaro, con un coinvolgimento, attraverso una forte semplificazione normativa, di tutti i soggetti che possono rendere il quadro più chiaro e attuare così efficaci percorsi di digitalizzazione del Paese. Sì, perché tra le focalizzazioni di uno Stato capace di indicare intelligenti percorsi di crescita, il digitale rappresenta la base di riferimento sulla quale collocare tutte le future strategie di innovazione e sviluppo. La pervasività nella società del digitale e il suo livello strategico per una ridefinizione dei criteri di sviluppo e di organizzazione sociale deve essere portata al centro dell’attenzione e soprattutto dell’azione del governo e della sfera politica. Perché è da qui che può partire l’idea di uno stato innovatore, motore di cambiamento e di un orizzonte di crescita diverso.