È attorno a un piatto di pesce, lo scorso giugno a Milano, che incontriamo Piercarlo Ravasio. Una carriera professionale, e soprattutto una “forma mentis”, tesa all’innovazione e alla ricerca del nuovo. Laureato in Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano, Ravasio, un percorso importante in Olivetti dove è stato alla guida dei Laboratori di Ricerca della gloriosa società, dopo altre esperienze lavorative è oggi amministratore delegato di Akhela, l’azienda Ict di sviluppo progetti e system integration del gruppo Saras (Moratti).
Con Ravasio è interessante il confronto. Come tutte le persone di sostanza, ha il pregio di andare subito al nocciolo delle cose, analizzando meccanismi e scenari complessi con parole semplici quanto efficaci. Cosa utile in questo periodo di trasformazioni…
ZeroUno: Incominciamo dal tema della complessità che assume oggi, nelle aziende, varie sfaccettature. Da un lato esiste una complessità di sistemi, interna all’impresa, che determina una necessità di governance e di sicurezza senza però compromettere le performance; dall’altro lato c’è una complessità legata a elementi decisionali, cioè alla difficoltà di poter reagire rapidamente alle variabili di mercato, prendere decisioni in real time, per riallineare di continuo l’offerta alla reale domanda. Qual è la sua riflessione in merito a questo tema?
Ravasio: Ogni tipo di industria ha livelli di complessità molto diversi. Ma la grande complessità, è indubbio, arriva dal mondo consumer, che impatta oggi pesantemente sull’organizzazione e sulle strutture aziendali. Stiamo parlando di tutti noi, degli impiegati dell’azienda, della forza vendita, di tutti quelli che usano l’informatica. Si è alzato il livello di alfabetizzazione rispetto a qualche anno fa; soprattutto c’è una maggiore proattività che non viene spesso colta da chi gestisce i sistemi informativi; in più c’è la componente della mobility che è formidabile: io faccio tutto dappertutto, e questo crea una discontinuità profonda. Andiamo sempre più verso un modello che vede da un lato un tablet o qualsiasi altro device essere utilizzato per ogni tipo di interazione; anzi, per inciso penso che il “cadavere tecnologico” prossimo venturo sarà proprio il personal computer; dall’altro lato esiste una grande potenza elaborativa disponibile da qualche parte nella rete, diciamo nel cloud. La cosa importante e interessante è che sempre più tutti noi intendiamo diventare fruitori di informazione ma al contempo produciamo informazione indirettamente, inserendo in rete, attraverso i vari tablet, una quantità di contenuti a disposizione di tutti. Il problema che mi pongo è: ma il management aziendale italiano ha capito questa opportunità e intenderà cavalcarla davvero oppure continuerà a muoversi in maniera classica? Mi spiego meglio: c’è stato un tasso di introduzione tecnologica sul mercato a velocità elevatissima che l’impresa, nelle sue componenti organizzative e umane, non ha colto fino in fondo ma che anzi ha spesso rifiutato. Siamo quindi oggi in una fase in cui convivono metodologie, modelli organizzativi, modi di lavorare obsoleti che non possono sfruttare appieno queste tecnologie. L’approccio technology driven cozza contro resistenze culturali, difficoltà oggettive di cambiare organizzazioni grandi e complesse, e quindi la distanza tra quello che si potrebbe ottenere dalla tecnologia e ciò che effettivamente si ottiene, aumenta.
ZeroUno: Come scardinare questa situazione? Questa digitalizzazione spinta che dal consumer si riversa in azienda è una rivoluzione che ha una dimensione mondiale e quindi non si può pensare di avere territori, l’Italia e le sue aziende, protetti da questo Tsunami…Peraltro, già oggi ci sono realtà nel nostro Paese che nel confronto con il mercato attraverso social networks traggono vantaggi in termini di nuovi spunti di vendita, fidelizzazione, riarticolazione dell’offerta in rapporto a un “polso del mercato” forse più preciso che in passato…Certo gli impatti sull’azienda non sono da sottovalutare; ma devono comunque essere affrontati…
Ravasio: Che debbano essere affrontati è indubbio. Il fatto però che una struttura si riadatti a nuovi modi di produrre consumare e distribuire è oggettivamente un processo pesante, oneroso e che richiede tempo. Facciamo un esempio. Cominciano oggi ad esserci alcuni televisori web enabled, punto di accesso unico a un insieme di reti; non esiste più solo la rete broadcasting ma da quella finestra abbiamo invece la possibilità di selezionare e interagire; un insieme di reti che ci permette un’ampia possibilità di scelta. Da quanto tempo questo è tecnologicamente possibile? Da almeno 15 anni. Ma quanto ha impiegato l’industria dei media e della pubblicità a capire questa opportunità?
ZeroUno: Adesso però c’è un elemento in più di accelerazione: la crisi appena passata ha definito parametri competitivi sempre più stringenti…La tecnologia, e nello specifico il modello as-a-service, può aiutare a ridurre questo gap di allineamento?
Ravasio: È vero. La crisi ha accelerato la velocità di adozione delle nuove tecnologie e soprattutto di adeguamento organizzativo delle aziende. I paesi in via di sviluppo, che hanno poco legacy, sono molto più bravi e veloci in questo allineamento tra velocità nel cambio organizzativo e allineamento tecnologico come modello abilitante nuovi modelli di business. La legacy più importante però, quella più pesante, l’abbiamo nel cervello. L’esperienza, se viene vista in una declinazione di non accettazione del cambiamento, diventa oggi un forte elemento di resistenza. Il Cio oggi ha richieste, da parte del business, in tempo reale: “Voglio sapere questa cosa adesso”. Questo gli cambia tutto il sistema, gli cambia la vita.
Il cloud rimetterà tutto in discussione. Non so se avverrà in un anno, in un lustro, o in due lustri. Ma che la nostra industria di servizi cambierà radicalmente, non ho il minimo dubbio. Tutto un insieme di piccole-medie aziende non avrà più bisogno del proprio data center o delle proprie applicazioni; avranno in rete i servizi, più o meno personalizzabili, che servono. Anche nella grande impresa questo avverrà, passando magari prima da “sperimentazioni” di private cloud interessanti.
ZeroUno: I cambiamenti avvengono però anche nei sistemi informativi, attraverso la nascita di figure sempre più preparate a interpretare la domanda interna e a garantire una gestione nuova dei fornitori esterni, assemblando servizi cloud finalizzati al “business value”. Come impatta il cloud computing sulle strutture organizzative di impresa e sulle persone?
Ravasio: Stiamo andando verso una grande standardizzazione in termini di servizio e il dipartimento It sta cambiando radicalmente. Ma deve farlo per forza. Nel tempo, salvo eccezioni, i sistemi informativi hanno perso competenza tecnologica attraverso processi di outsourcing e non sono stati capaci di reinventarsi. Il cloud consente oggi al management di risparmiare, di snellire l’It e soprattutto di avere tempi e flessibilità che prima erano spesso negati. Se i sistemi informativi non riusciranno a fare quello scatto di creazione di valore per il business ma saranno vissuti ancora come necessari per emettere le fatture, allora la disintermediazione sarà un fatto certo. Già oggi tantissime aziende stanno andando su Gmail; perché non posso metterci altri pezzi? Poi, ripeto, non so se questo paese saprà cavalcare questa trasformazione o la subirà. Non so se la nostra classe dirigente saprà sfruttare questa situazione….
ZeroUno: Quindi lei vede il rischio nell’immobilismo e nella non comprensione del fenomeno da parte dei nostri amministratori delegati?
Ravasio: L’introduzione dell’Ict nel nostro paese è molto più lenta che altrove. All’estero è diffuso dare all’Ict il ruolo di ridisegnare i modelli di business e di supportare l’azione dell’azienda sul mercato. C’è maggiore fiducia nel sistema informativo e nell’informatica in genere. La classe dirigente italiana invece, storicamente, non ha mai considerato, salvo eccezioni, l’informatica come un elemento di vantaggio competitivo, come un asset strategico per lo sviluppo del proprio business. Almeno fino ad oggi. Siccome i processi accelerano, il differenziale competitivo tra chi usa bene i sistemi e chi li usa male si allarga; il rischio è che questo gap si estenda a livello Paese.
ZeroUno: In questo scenario di cambiamento come si posizionano i vendor?
Ravasio: Dobbiamo radicalmente cambiare il modo di porci sul mercato imparando a sviluppare una capacità di erogazione di servizi, di supportare le aziende verso il modello cloud, di definire quali applicazioni possono essere portate nella nuvola. Servirà avvicinarsi molto all’utente finale, capirne le esigenze, tradurle in nuove applicazioni da mettere nel cloud. Non ho certezze sui tempi di questa trasformazione, ma che questo avverrà non ho il minimo dubbio.
Ma provi a pensare: oggi stiamo cominciando a parlare di Sap as-a-service. Abbiamo idea di cosa può voler dire, in termini di cambiamento nel settore industriale, una cosa di questo tipo? Ed è inevitabile: chi me lo fa fare di tenere in piedi un’infrastruttura applicativa che oggi, per buona parte delle sue funzioni, non mi crea valore di business ma serve a soddisfare una serie di operatività di base che possono essere tranquillamente standardizzate nel modello cloud? E’ difficile, certamente, arrivarci; ci sono aspetti di sicurezza, di garanzia di privacy, ci sono elementi legislativi da non sottovalutare… ma il trend è questo.
ZeroUno: E nello specifico, come si rapporta Akhela in questo scenario?
Ravasio: Cerchiamo di seguire due strade di riferimento: da un lato ci stiamo spostando sempre più verso l’utente. In particolare nel settore della mobility stiamo cercando di capire se e come esistono spazi economici significativi sia sul versante consumer sia cercando di sfruttare le potenzialità in ambito più professionale: controllo qualità, sales force automation, ambiti nei quali i vantaggi che può portare la mobility sono davvero importanti.
Dall’altra parte stiamo lavorando nell’area dell’high performance computing, per giocarci il nostro ruolo nell’aiutare le organizzazioni ad andare verso il cloud, consentendo loro di usare meglio la potenza di calcolo che già oggi esiste ma che non viene sfruttata fino in fondo [vedi in dettaglio gli articoli precedenti -ndr].
ZeroUno: Ritorniamo al tema della complessità. Come introdurre nelle imprese livelli di intelligenza sempre maggiore per gestire la complessità? L’ “intelligenza” può diffondersi su due differenti piani: sia attraverso l’utilizzo di strumenti di business intelligence (con simulazioni diffuse, strumenti per il supporto decisionale, analytic application per previsioni sempre più accurate) sia introducendo automatismi e nuova intelligenza nei sistemi. Qual è la vostra vision?
Ravasio: E’ indubbio che nuovi strumenti di BI diventino sempre più potenti, l’accesso a db di grandi dimensioni diventa più facile; oggi, inoltre, attraverso un paradigma d’interfaccia “Google-like” è più semplice anche la navigazione. Abbiamo una marea di dati abbandonati di cui non sappiano molto; la BI permette di ragionarci sopra meglio; i motori di ricerca, i motori semantici hanno indicato una strada, per cui si può anche ricercare su contenuti non strutturati in tempi non biblici. Il problema serio è, davvero e al di là delle battute, che domande siamo in grado di porre? La difficoltà è rapportare le analisi con i processi strategico-decisionali di impresa per una capacità effettiva di incidere sull’efficienza e il supporto all’innovazione. Non è per niente facile.
L’altro tema, quello di realizzare sistemi che abbiano una maggiore self-governance e intelligenza, sarà sempre meno importante. Ci pensa Amazon, Google, Telecom…è il cloud che avanza! Ci sarà qualcuno che andrà a vedere quanto costa il Mips e il Tera da questo e da quell’altro fornitore e basta. Anzi: nemmeno il Mips e il Tera, ma quanto mi costa emettere la fattura oppure ricevere un pagamento, la movimentazione dei codici di magazzino e così via. Alla fine, la domanda sarà: quanto mi costa? E’ quello che è successo con tutte le infrastrutture.
ZeroUno: E per quanto riguarda l’evoluzione delle figure professionali all’interno dei sistemi informativi, che tipo di percorso lei vede nei prossimi anni?
Ravasio: La trasformazione sarà decisa, ma non vedo uno “svuotamento” di competenze oppure un lavoro di bassa qualità: anche declinare, in termini di tipologie di utenza, servizi articolati e complessi non è un lavoro di poco conto ed è estremamente importante ai fini dei risultati del business. Richiede capacità.
ZeroUno: Chiudiamo con il tema delle competenze. Cosa dire delle nuove leve?
Ravasio: In genere non è così semplice oggi, almeno parlo dalla prospettiva di Akhela, trovare ragazzi che sappiano programmare bene, perlomeno in aree particolari come automotive, controllo real time…. L’università non produce abbastanza laureati che fanno…”le cose giuste”. Ne produce un mucchio la Iulm, quelli del marketing and communications, ma uno che faccia le cose… da vendere, tangibili, lo troviamo o no? Alla fine ne abbiamo troppi che “comunicano” tra di loro, troppi comunicatori. Comunque, battute a parte, noi siamo cresciuti. Quest’anno abbiamo inserito in organico 45-50 persone e la media di età in Akhela è sui 32 anni. Sufficiente per essere sensibili al nuovo, al cambiamento.
In termini generali, invece, la situazione del Paese è alquanto stagnante. Se gli imprenditori volessero davvero intraprendere avrebbero abbastanza leve nei confronti della politica per sollecitarla a mettere a punto adeguate strategie di sviluppo industriale; per contro, se i politici volessero davvero fare i politici avrebbero abbastanza leve per imporre agli imprenditori di fare innovazione. Invece, come sempre, siamo andati al ribasso, per quieto vivere. Un paese in cui la disoccupazione giovanile è arrivata al 28-30% è evidente che ha un grande problema. La domanda chiave è: cosa abbiamo fatto per far decantare, per consolidare nelle ultime due generazioni le competenze? Un ragazzo che ha fatto per sei mesi il bagnino, per sei mesi l’operatore di call center, per altri sei mesi ha messo a punto un impianto pericoloso….alla fine che cosa sa? E soprattutto non tanto che cosa sa lui come singolo, ma che cosa si è costruito come sistema! Se vi ricordate l’esperienza degli artigiani, quelli che hanno contribuito al vero made in Italy, dovuta ad anni di lavoro e di affinamento di pratiche e di competenze. Noi stiamo distruggendo tutto questo e non si costruisce nulla sulle nuove generazioni. Consentire invece alla persona di depositare le competenze, crescere nelle esperienze è un asset che andrebbe preservato. Pensiamo, ad esempio, alla filiera dell’auto e a quanto essa sia lunga e radicata nel territorio. Il rischio che tutto possa essere compromesso è elevato. E noi, invece, come Paese, non possiamo ormai più permetterci di perdere altra ricchezza professionale e intellettuale. Non abbiamo ormai molti margini di recupero.