Si è abituati ad associare il concetto di metaverso e il sogno di una sua concreta e fruttuosa applicazione a mondi come il game e l’entertainment, il marketing e il fashion. Lo si immagina frequentato soprattutto da adolescenti e nativi digitali, più disinvolti nello switchare tra identità virtuale e fisica, quasi per osmosi.
A sorpresa, per lo meno per molti, è invece nel mondo della ricerca che si è recentemente mostrato un utile strumento di lavoro. Anzi, non solo utile ma in grado di rivoluzionare completamente il modo di fare operare giorno per giorno. E a sostenerlo non sono i soliti fan del metaverso, ma Pietro Ferraro, Direttore di ricerca presso CNR – ISASI e coordinatore di questo innovativo progetto.
Le sfide dell’imaging
Il potere disruptive di un potenziale uso del metaverso in campo scientifico è tale da aver conquistato spazio sulla rivista Small Methods. Potrebbero “copiarlo” anche molte aziende per dare una scossa al proprio reparto R&D e cambiare visione. Per farlo, devono però per un momento indossare i panni di un ricercatore come quello del team che ha scommesso sul metaverso, un team misto, composto da esperti dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti ‘E. Caianiello’ (CNR – Isasi), dell’Istituto sistemi e tecnologie industriali intelligenti per il manifatturiero avanzato (CNR – Stiima) e del Dipartimento di medicina molecolare e biotecnologie mediche dell’Università degli studi di Napoli Federico II.
L’obiettivo di partenza era quello di sviluppare un citofluorimetro con analisi tridimensionali, assente sul mercato, che sostituisse quelli per immagine. “Finora è stato possibile fotografare le cellule sfruttando un processo chimico di colorazione che permette di vedere tutti i sub componenti ciascuno di una diversa tinta, grazie a dei marcatori cromatici. Questo metodo presenta però due problemi – spiega Ferraro – la tossicità dei coloranti e l’impossibilità di individuare cellule potenziali segnali premonitori, ovvero le cosiddette Cellule Tumorali Circolanti che si staccano dal tumore”.
Da qui, la necessità di svincolarsi e cercare una microscopia label free (o stain free) che individui l’impronta digitale delle cellule dal punto di vista morfologico. Questo, infatti, potrebbe permettere di trovare magari anche le variazioni morfologiche legate a mutazioni genetiche, un grande vantaggio per chi sfrutta l’imaging, per esempio, in campo oncologico come l’infrastruttura di ricerca CIRO (Campania Imaging for Research in Oncology), finanziata dalla Regione Campania, il contesto in cui il team CNR- Università sta operando.
Come sfruttare dati 3D: così il metaverso entra nella ricerca
L’idea di usare il metaverso non è spuntata subito. Ripercorrendo l’evoluzione delle diverse tecniche di imaging utilizzate, Ferraro spiega che “a un certo punto si è notato che le cellule ruotavano, aprendo alla possibilità di fare una tomografia, dopo aver ingegnerizzato il loro movimento. Questo ci ha permesso di ottenere la struttura tridimensionale densità della cellula (la distribuzione tridimensionale dell’indice di rifrazione) e quindi tutte le informazioni necessarie per l’interferometria tecnica più sensibile inventata finora”.
Con una gran mole di preziosi dati sulla struttura 3D della cellula tra le mani, il team ha provato a testare alcune tecnologie per valorizzarli al meglio. Con l’intelligenza artificiale, servivano troppo campioni e “una informazione vera di riferimento”. Con l’analisi statistica di pixel, emergeva un problema di calibrazione del sistema legato all’impossibilità di confrontare gli algoritmi. “Abbiamo quindi deciso di creare creare un ambiente per sfruttare i nostri dati tridimensionali nel miglior modo possibile e abbiamo pensato al metaverso” spiega Ferraro. “In questo contesto, diventa possibile entrare nella cellula per capire meglio i vari parametri: è un modo totalmente nuovo per fare ricerca. Si ‘naviga’ nella sua struttura e si può contribuire a calibrare gli algoritmi che inizialmente potrebbero non essere affidabili. L’operatore, infatti, si può posizionare dove vuole e porre domande sui parametri dei vari componenti, condividendo le proprie conoscenze e la propria esperienza sul campo, nell’ambiente stesso, in real time”.
Questa applicazione del metaverso nel mondo della ricerca, quindi, non si limita a fornire una migliore rappresentazione “postuma” di risultati ottenuti, ma diventa il luogo dove si effettua la ricerca in continuum e con capacità potenziate. “Anche le aziende potrebbero utilizzare il metaverso con lo stesso paradigma, facendo evolvere le proprie tecniche di progettazione e sviluppo” afferma Ferraro.
Medicina e ambiente, ricerca e aziende: tanti gli orizzonti 3D possibili
Applicato come fatto a Napoli, il metaverso diventa una tecnologia che mette ancora più al centro le persone e ne amplifica e valorizza le competenze. “Potenziamo una maggiore possibilità di esplorare e contribuire alla ricerca. Regaliamo un nuovo occhio clinico, proponendo un cambio di visione che ci aspettiamo porti la ricerca a compiere significativi passi avanti in molti campi” afferma Ferraro.
In oncologia, attuale campo di applicazione, si avranno più chance di trovare cellule tumorali e di capire quali reagiscono a quale farmaco. In zootecnia si potrà meglio studiare fenomeni come l’antibiotico resistenza negli allevamenti e, in caso di pandemie come il Covid, si riuscirà a rilevare quantitativamente la presenza nelle cellule di eventuali particelle lipidiche, preziose sentinelle di allarme per diverse patologie quali diabete, arteriosclerosi, stato infettivo da agenti patogeni. Secondo Ferraro, il nuovo strumento e il nuovo approccio potrebbero essere utili anche in campo ambientale, per identificare la presenza di inquinanti attraverso lo studio delle diatomee, oppure per approfondire il ruolo dei pollini, anche per la salute umana.
Esplorando queste e altre potenziali future applicazioni, non va persa di vista la tecnologia che rende tutto ciò possibile, o per lo meno immaginabile. Ferraro guarda infatti a nuove sfide anche da questo punto di vista: “vogliamo migliorare l’ingegnerizzazione nella tomografia, per non perdere cellule nel flusso studiato, e ottimizzare la risoluzione spaziale, per poter cogliere sub compartimenti cellulari sempre più piccoli”. Due obiettivi ambiziosi che desidera raggiungere lanciando a breve uno spin off internazionale. “La roadmap è chiara: vogliamo portare il prodotto sul mercato entro 2-5 anni, realizzandone vari modelli a seconda delle necessità e delle applicazioni. Abbiamo già anche il nome: Tomoflow”.