Taiwan è una meta sempre più interessante per le imprese occidentali. Riassumiamo alcuni degli elementi che stanno caratterizzando lo sviluppo dell’isola asiatica: è aumentata la stabilità politica; la popolazione consuma ormai all’occidentale, dal cellulare (100,7% di penetrazione), al made in Italy (10%). In realtà l’apertura è presente da tempo; ciò che è cambiato è semmai l’istituzionalizzazione di queste relazioni in ambiti quale il Wto, unita alla digitalizzazione dell’economia trainata da un investimento pubblico in ricerca e sviluppo cresciuto in 15 anni dallo 0,6 al 3% del Pil, tendenza che fa dell’isola la quinta economia più competitiva dell’Asia (dati World Economic Forum 2003-2004).
Gli scambi con l’estero, Cina compresa, sono comunque aumentati. I gestori dei fondi azionari asiatici, considerati “polsi sensibili” a riguardo, reputano al 37% che l’integrazione economica fra Taiwan e Cina sia completa e al 54% che sia abbastanza progredita da scoraggiare il perseguimento dell’unificazione mediante colpi di mano (fonte Morningstar).
La presenza delle aziende italiane in questo mercato è recente; non supera stabilmente le 15 realtà, ma porta a un interscambio crescente e a un elevato turnover di collaborazioni, variamente classificabili, eppure tutte dirette alla penetrazione in Cina, con le 26 mila aziende locali attive con il gigante asiatico (il giro d’affari di queste imprese, al netto degli investimenti italiani, è di 25 miliardi di dollari l’anno). Per prima cosa, l’operatore italiano trova a Taiwan una struttura simile a quella d’origine, basata sulle forme d’integrazione verticale del settore manifatturiero, più o meno evolutesi in senso Ict, chiamate distretti. Incontra quindi una realtà sviluppatasi rapidamente e non senza criticità. Accanto a chi produce i tradizionali beni di fascia bassa, le cui produzioni tendono a migrare verso la Cina per il differenziale di costi o a essere spiazzate da analoghe opzioni degli investitori esteri, incontra un’economia sempre più terziarizzata, hi-tech e dinamica. Ciò che è avvenuto, direbbero gli entusiasti, è un consapevole convogliamento degli alti tassi di risparmio interni, degli investimenti esteri e della spesa governativa in nuove tecnologie e in formazione tecno-scientifica della popolazione, che ha reso Taiwan leader mondiale nella produzione dei microchip, dei notebook e delle schede madri e uno dei maggiori esportatori (80%) di periferiche e di player audio video quali Dvd e CD-Rom, nonché, da qualche tempo, di software multimediale.
Tutto ciò ha prodotto rilevanti conseguenze. Caratteristica del mercato locale è divenuta la presenza di leader dell’alta tecnologia globali quali HP, Microsoft e Intel, i cui massimi dirigenti gli riconoscono “una storia d’inventiva e di reinvenzione”, “un’impressionante capacità innovativa” e una “centralità nel settore Ict mondiale”. Per preservare un certo grado d’indipendenza in questo comparto, il Governo locale ha istituito enti quale l’Istituto nazionale per la ricerca tecnologica (Itri). Esso collabora con le imprese nazionali, con quelle estere, che lo definiscono “la culla dell’industria hi-tech del Paese”, ma anche con il Governo di Pechino impegnato a perseguire forme di “nazionalismo tecnologico” quale lo studio delle potenzialità di standard alternativi al Dvd.
Pur fra vari choc, compresi un terremoto e una crisi finanziaria regionale, grazie agli investimenti e all’accresciuta produttività, Pil e consumi hanno continuato a crescere a ritmi fra il 4 e il 6% annuo. In ogni caso, soprattutto negli ultimi tre anni, numerosi marchi italiani, dal mobilificio al tessile ai macchinari, si sono effettivamente interessati a questo mercato, aprendovi show room, negozi, canali di fornitura e, più raramente, vere e proprie filiali. Talvolta, come nel meccanotessile, ciò è avvenuto per “inseguire” concorrenti svizzeri e tedeschi che avevano già avviato iniziative in loco, ma vi sono anche frutti di iniziative promosse dal nostro settore pubblico o di dinamiche spontanee del processo di internazionalizzazione italiano.
Usando Internet per superare limiti strutturali ed esterni, svariate Pmi hanno saputo innescare fenomeni stabili di trasferimento di know-how laddove realtà maggiori hanno mostrato un approccio più tradizionale, talvolta, come nel caso della multinazionale veneta di macchinari per la produzione calzaturiera Maingroup, perseguendo il solo fine di entrare in Cina.
Le nuove dinamiche beneficiano anche della membership di Taiwan, dal 2002, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che implica il cosiddetto “trattamento nazionale”, ovvero non discriminatorio, delle imprese e degli investimenti esteri, l’allentamento dei controlli sui movimenti di capitale e speciali incentivi all’insediamento delle aziende hi-tech. Tutto ciò, supportato dall’attività promozionale della Cetra o China External Trade Agency ) in 32 Paesi del mondo, fra cui, dal 2003, anche l’Italia, che ha contribuito a sopperire ad alcuni limiti locali quali la valuta legata al dollaro e la demografia di 23 milioni di abitanti, non paragonabile a quella del gigante cui l’isola è legata da vincoli culturali.
Per analizzare gli intrecci fra business e cultura ZeroUno ha intervistato James C. Hsiao, Managing Director del Cetra di Milano.
ZeroUno: Che cosa pensa dei timori nei confronti delle imprese taiwanesi, causati anche da fenomeni concreti quali le politiche aggressive di ribasso dei prezzi?
Hsiao: Alcune imprese taiwanesi, come di altri Paesi, ricorrono a pratiche disoneste, ma vorrei sottolineare che il nostro successo dipende in larga parte da fattori interni che agiscono a tutti i livelli del nostro sistema, quali la propensione a innovare, la profonda dedizione al lavoro e, in generale, un atteggiamento aperto e umile nei confronti dell’operatore straniero.
ZeroUno: Sono quelli che tradizionalmente si considerano tratti del Confucianesimo…
Hsiao: Io non parlerei di Confucianesimo come influenza diretta, perché Confucio predicava un predominio etico dell’agricoltura sul commercio. Non posso però negare l’esistenza di alcuni riflessi di questa regola anche nell’industria, seppure in forma raffrontabile a quella assunta da un atteggiamento “tradizionalmente disciplinato” in Paesi occidentali quale la Germania.
ZeroUno: E come coniugare la “disciplina” con gli ostacoli burocratici?
Hsiao: Potrei risponderle che, arrivando qui da direttore di un Ente estero, permesso di soggiorno e stabilimento della sede hanno richiesto sei mesi. Potrei citarle alcuni limiti, forse di pertinenza Ice e che portano le imprese anche italiane a rivolgersi al Cetra piuttosto che a Enti nazionali: servizi cari o ridondanti rispetto a quelli di altre autorità. Oppure potrei rilevare come l’Italia sia spesso indietro dal punto di vista delle barriere linguistiche, e mi riferisco alla conoscenza dell’Inglese. Infine, aggiungerei la questione del non compiuto “federalismo bancario” che, a uffici come il mio, causa notevoli difficoltà nei trasferimenti di valuta.
Le imprese italiane preferiscono cetra