L’evoluzione esponenziale della tecnologia sta ormai da decenni modificando radicalmente l’economia e la società che conosciamo, quella basata su un governo centralizzato delle regole e delle risorse. Un’accelerazione che i due esperti Erik Brynjolfsson ed Andrew McAfee hanno ben descritto nel libro ‘La nuova rivoluzione delle macchine’, evidenziando come da circa tre decenni, nei paesi industrializzati, si stia assistendo ad una “redistribuzione senza precedenti di benessere e reddito attraverso il cambiamento esponenziale, digitale e combinatorio della tecnologia che sorregge il nostro sistema economico. Le tecnologie digitali possono replicare idee, intuizioni e innovazioni preziose a un costo estremamente basso – si legge nelle pagine del libro -. Questo crea abbondanza per la società e ricchezza per gli innovatori, ma induce la diminuzione della domanda di certe forme di manodopera – i cui compiti prevedono spesso mansioni di routine sia cognitive che manuali – che prima erano invece importanti. I rapidi progressi dei nostri strumenti digitali stanno creando un benessere mai visto prima, ma non esiste una legge economica che garantisca che tutti i lavoratori, o anche solo una maggioranza, beneficeranno in futuro dei suddetti progressi”.
Il futuro del lavoro
L’impatto delle tecnologie sul futuro del lavoro è un tema oggi ampiamente dibattuto che ha trovato spazio anche durante l’evento annuale ‘Gli incontri ICT2016’ di Finaki, quest’anno intitolato ‘L’alba del pianeta delle macchine – Come la trasformazione digitale e il progresso tecnologico in atto stanno ridisegnando la società in cui viviamo’. Pierfranco Camussone, docente di Economia e Management presso l’Università di Trento e professore di Sistemi Informativi presso Sda Bocconi, affronta l’argomento nel suo keynote sottolineando fin da subito che il quesito sul futuro del lavoro debba in realtà essere riformulato: “non è il futuro del lavoro il fulcro dell’analisi ma come lavoreremo in futuro”.
Partendo dai principi economici tradizionali secondo i quali Pil e produttività rappresentano le misure attraverso le quali si snoda lo sviluppo di un paese, Camussone evidenzia a più riprese l’importanza dell’innovazione: “l’innovazione contribuisce a far crescere il Pil utilizzando meno lavoratori, quindi potrebbe crescere la disoccupazione. Niente di più falso – è il monito del professore -; in realtà non è assolutamente vero che c’è correlazione tra innovazione e disoccupazione: l’evidenza empirica mostra tutt’altro: i Paesi nei quali c’è stata più innovazione e maggiori investimenti in questo senso sono quelli che hanno i minori tassi di disoccupazione”. Camussone è poi entrato nel vivo della sua analisi riconoscendo in Internet, nell’automazione industriale e nell’Intelligenza Artificiale le tre grandi forze innovative che hanno e stanno ridefinendo il mondo del lavoro. “Forze che stanno avendo una fortissima ricaduta sull’industria Ict in primis, che sta vivendo una ‘nuova primavera’ attraverso la creazione diretta di ricchezza e lavoro – precisa Camussone – ma che stanno anche generando una serie di impatti su tutti gli altri settori in cui l’Ict viene utilizzata (e ormai potremmo dire che non esiste tipologia di business che non sfrutti l’Ict)”.
Quali sono gli scenari e le prospettive del lavoro Camussone lo esplicita così: “Nell’economia digitale le ‘regole’ di mercato, economiche e sociali del passato non saranno più valide ed è inevitabile che vi siano ripercussioni anche sul piano dell’occupazione. A fronte di una ‘perdita’ di posti di lavoro, dove quelli più a rischio sono i più routinari, aumenterà la domanda di professionalità specifiche (soprattutto competenze Ict) e ai lavoratori sarà sempre più richiesta capacità d’uso delle nuove applicazioni Ict. La criticità maggiore sta nel fatto che il recupero dei posti perduti potrebbe essere più lungo dei tempi di distruzione, oltre al fatto che la nuova domanda sarà concentrata su competenze completamente diverse dalle precedenti e quindi non sarà rivolta a quei lavoratori che rischiano di perdere il lavoro”.
Uno scenario oscuro? Niente affatto, “a patto che governi, imprese e cittadini inizino fin d’ora ad assumersi la responsabilità del cambiamento: i governi devono indirizzare la società verso nuovi modelli, riformulando il sistema fiscale, rivedendo il ruolo dello Stato e ridefinendo i programmi di education; le imprese devono investire in tecnologia per innovare e comprendere quale sia il reale valore dell’automazione mantenendo la competenza ‘umana’ dove realmente questa possa ‘fare la differenza’; i cittadini devono cambiare mentalità, aspirazioni, stili di vita negli studi e nell’approccio al lavoro”.
La trasformazione digitale tra tecnologie e persone
Per comprendere che cosa realmente si stia facendo, in Italia, per ‘abbracciare’ la trasformazione digitale trovando l’ottimale equilibrio tra tecnologie e persone, Finaki ha dedicato ai Cio riuniti in una tavola rotonda, moderata da Gianluigi Castelli, professore di Management Information Systems di Sda Bocconi e direttore Devo Lab, un momento di confronto nel corso delle sessioni plenarie. Fulcro del dibattito, la ricerca di percorsi e strumenti finalizzati a liberare la circolazione delle idee dai confini burocratici e organizzativi delle aziende quale elemento dirompente e motore di innovazione e trasformazione digitale.
“Stiamo cercando di non forzare le nuove generazioni ad adeguarsi alle strutture rigide aziendali proprio per cogliere al meglio quelle competenze di creatività e capacità di problem solving di cui si parlava prima – è il primario commento di Dario Pagani, Evp & Cio di Eni -; questo significa ovviamente anche ‘rivalutare’ le modalità attraverso le quali accrescere le competenze con la ‘forza dell’esempio’, riconoscendo magari che non dipende dall’età anagrafica”.
Un po’ più provocatorio Gianluca Pancaccini, presidente e Ad di Telecom Italia Information Technology, Cio di Telecom Italia, che invita ironicamente ad “asfissiare l’organizzazione con il fuoco sano della competizione interna; stare comodamente seduti sulle proprie poltrone è ciò che di peggio possa accadere; la trasformazione aziendale, digitale, va costruita ed alimentata abituando le persone ad essere più proattive”.
Concorda con la necessità di una maggiore responsabilizzazione delle persone quale chiave di volta necessaria a guidare la digitalizzazione di business anche Roberto Burlo, Cio di Generali Business Solutions, il quale tuttavia evidenzia anche la necessità di “riappropriarsi delle competenze tecnico-informatiche di base; i fondamentali sono cambiati drasticamente e quanto più il business sarà retto (non più solo ‘sorretto’) dall’It, tanto più sarà necessario riportarsi ‘in casa’ skill tecnici specializzati in grado di ‘mettere mano’ al motore”.
Ciò che forse è evidente a tutti è tuttavia il fatto di non essere ancora pronti a fronteggiare questa trasformazione, anche se di fatto è già in atto da tempo. “Il ‘programma digitale’ viene percepito in modo differente dalle persone a seconda del loro ruolo effettivo – riflette per esempio Massimo Milanta, Cio & Cso di UniCredit Group – ma in linea di massima spaventa, soprattutto se associato al rischio di perdita di lavoro o di cambio di ruolo/posizione. Dal punto di vista progettuale, guardando quindi al business model, la portata della tecnologia è abbastanza riconosciuta a tutti i livelli ma ancora si fatica a capire come monetizzare un nuovo modello di servizio incentrato sul digitale. Serve uno sforzo ancora maggiore di cooperazione tra business e It”.
“Il nostro mondo forse più degli altri ha difficoltà a capire cos’è la digitalizzazione per due motivi – interviene sull’argomento Antonio Samaritani, direttore generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale -: all’interno della PA la formazione è prevalentemente di natura giuridica e questo comporta che la prima analisi di cambiamento non viene effettuata sulla natura dei processi ma sugli impatti che tale cambiamento genera sulle norme; in secondo luogo, la digitalizzazione viene vista solo nella sua componente di front-end (il servizio finale) perché mancano le competenze tecniche per fronteggiare il cambiamento dal basso”.
Le competenze nel futuro digitale
Ed è proprio sulla questione delle nuove competenze che interviene Giancarlo Capitani, presidente di NetConsulting Cube, che facendo un po’ di chiarezza sul rumore di fondo che si è creato sul tema ‘automazione=disoccupazione’ sottolinea come “il pericolo massimo riguarda il 15% dei lavoratori globali [secondo le stime riportate nell’ultimo report ‘The risk of automation of jobs in Oecd countries’ dell’Oecd – Organisation for Economic Co-operation and Development – ndr], se guardiamo alla minaccia della perdita di lavoro in sé; la vera sfida semmai è il cambiamento della tipologia di lavoro in seguito all’automazione; questo aspetto per esempio pone l’Italia al terzo posto a livello mondiale come rischio di perdita di posti di lavoro proprio a causa degli scarsi investimenti in Ict (che negli altri paesi mostrano invece come alla crescita di investimenti corrisponda una crescita di lavoro, di produttività, di Pil e di competitività)”.
Entrando nel merito delle previsioni sull’andamento dell’occupazione in UE per livello di competenza, Capitani evidenzia come a crescere saranno “le professioni che richiedono alte qualificazioni”. Ma quali sono queste professioni? “Non si tratta di competenze solo tecnologiche, anzi, ai primi posti ci sono: abilità cognitive, complex problem solving, content skills, process skills – risponde Capitani -. Crescerà inoltre anche la richiesta di competenze in area digitale: data science/analyst, mobile specialist, Iot, Security, Enterprise architects…”.
Uno scenario al quale però l’Italia pare non sia ancora pronta: “nel nostro paese c’è una rigidità eccessiva nella gestione della fuori uscita del mercato del lavoro – osserva Capitani -, e ci sono settori che stanno particolarmente soffrendo per questa rigidità (perché in questo momento avrebbero bisogno di competenze nuove): Banche/Finance e PA ne sono l’esempio primario”.
Entro il 2020, dicono diversi studi della Commissione Europea e di Eurostat, crescerà in modo significativo la domanda di nuovi skill Ict “ma l’Italia sarà costretta ad acquisire tali competenze dagli altri paesi perché mostra un gap importante di skill digitali: le nostre risorse sono ‘ferme’ alle competenze di base mentre gli altri paesi dell’UE hanno già sviluppato competenze evolute”, è il monito di Capitani. “L’Industry 4.0 produrrà, solo in Germania, oltre 400 mila nuovi posti di lavoro. È tempo di credere e di investire nell’economia digitale”.