Secondo l’OMS in oltre il 40% dell’Africa il rapporto medico-popolazione è di 1 per 1.000 persone (il livello minimo dovrebbe essere di 13,4 ogni 1.000 persone) e 30 Paesi sono sotto tale media. Questa è la più evidente criticità, ma ne seguono altre: infrastrutture insufficienti, alta mortalità su strade secondarie che impedisce soccorsi e spostamenti, contrabbando e contraffazione di farmaci, scarsità di competenze locali e il “brain drain” che preleva le poche persone formate attirandole con lauti stipendi in Europa.
In questo scenario, sembra mancare anche il minimo spazio di manovra per innovare il settore health africano. Chi lo guarda dall’esterno spesso rischia di perdere di vista le reali priorità, importando soluzioni sviluppate altrove e lasciando irrisolti gli storici problemi strutturali di questo continente. Con pazienza, saggezza, pragmatismo e “umiltà” serve invece rinunciare alla tecnologia che “fa titolo” e rimboccarsi le maniche per identificare quella che può dare davvero una mano.
Le premesse normative e di mercato non sono delle migliori ma, solo nel 2020, il settore ha attirato più di 110 milioni di dollari di finanziamenti secondo un rapporto realizzato da Briter Bridges. Risorse che possono innescare un’innovazione reale e duratura, sfruttando l’onda della pandemia che ha portato enormi danni ma anche l’opportunità, per la sanità africana, di chiudere un capitolo e aprire quello della digitalizzazione virtuosa.
I 4 campi sanitari in cui la tecnologia può fare la differenza
Scarsa visibilità e alto impatto sociale caratterizzano le innovazioni che hanno il potenziale per migliorare realmente la sanità africana. “Idee come i droni per il trasporto di sangue sono casi rari di successo che fanno il giro del mondo a livello mediatico, ma non cambiano la situazione. C’è un ecosistema healthtech da creare e supportare, che risponda ai bisogni reali proponendo tecnologie magari più ‘banali’ ma più adeguate e facilmente applicabili” spiega Dario Giuliani, founder di Briter Bridge.
Esistono 4 aree di azione a cui gli innovatori possono puntare, per essere davvero dei game changer.
L’hospital/healthcare management digitalizza i sistemi sanitari rimasti a livello “carta e penna” puntando su CRM, ERP e EMR (Electronic Medical Record). L’obiettivo è quello di aiutare gli operatori sanitari a recuperare, memorizzare, archiviare, scambiare le informazioni mediche dei pazienti. Dati alla mano, si ha la base per portare efficienza e abilitare nuove soluzioni di pagamento o altri possibili business data-driven e profittevoli.
Un sistema sanitario “meno cartaceo” favorirebbe anche la telemedicina, che ha già ultimamente registrato una grande crescita. “L’aumento della mobile phone penetration, la riduzione dei costi internet e la generale democratizzazione delle tecnologie di base hanno reso le cure di base più diffuse e accessibili” osserva Giuliani.
Servizi di telehealth e teleassistenza sono una parziale ma preziosa risposta sia alla scarsità di medici che alle inadeguatezze infrastrutturali. Sono anche l’unico modo per fornire assistenza sanitaria di qualità in aree poco accessibili, che molti medici si rifiutano di raggiungere perché “pericolose”. Le iniziative in quest’area sono ben viste perché abbattono i costi sanitari e sgravano gli ospedali, ma devono comunque affrontare enormi sfide. Sia socioculturali che infrastrutturali: dalla scarsa alfabetizzazione digitale alla mancanza di elettricità e connettività.
Anche l’area della logistica medicale ha un forte bisogno di innovazione tecnologica. Mancano i farmaci di base, i dispositivi medici inviati dalla comunità internazionale restano spesso sottoutilizzati, la distribuzione non è consolidata e persistono ostici accordi di esclusività tra distributori e fornitori.
Le farmacie, che per molti rimangono l’unico punto di riferimento, restano con pochi prodotti spesso scaduti o addirittura di contrabbando. Sono numerose le startup che hanno “aggredito” questo branch collaterale all’health, importando modelli di business dal mondo e-commerce, o puntando sulla valorizzazione dei dati.
Fare sistema per capitalizzare la disruption post-Covid
“Molti sono gli esperimenti in tutte e 4 le aree. È necessario identificare sempre meglio modelli di business vincenti, anche se ogni innovazione può aiutare tanto è tragica la situazione. La pandemia ha devastato un sistema già fragile e storicamente problematico” commenta Giuliani identificando però anche alcune opportunità portate dal Covid-19.
Negli ultimi due anni la produzione di farmaci in Africa ha accelerato di 20 anni, la speranza è quindi che oggi sia in grado di svilupparne a sufficienza per ridurre in futuro il numero di decessi. Per ricevere i vaccini, inoltre, molte sono state le registrazioni al sistema sanitario che costituiscono dati digitali preziosi sia per supportare i governi che per incoraggiare nuove iniziative imprenditoriali.
L’impatto devastante della pandemia ha “regalato” al continente anche tanta visibilità, sensibilizzando fondazioni e privati. “Sono arrivati capitali e progetti che ora è necessario ottimizzare e mantenere vivi. Le startup da sole non riescono, l’ecosistema di health innovation ha bisogno di sovrastrutture che lavorino in base a comuni e reali priorità. Enti internazionali, corporate, investitori e governi devono collaborare in modo strutturato e continuativo su obiettivi precisi” spiega Giuliani, suggerendone alcuni.
Uniformare e semplificare processi, focalizzare gli investimenti verso modelli di business sostenibili superando il “paradosso della prosperità”, supportare le aziende pioniere e “role model”, favorire partnership di ampio respiro per le startup locali che le aiutino ad avviare business vincenti e di lunga vita.
Startup healthtech: casi di successo per uscire dall’empasse
Le idee imprenditoriali più efficaci e promettenti sono quelle che sfidano le criticità “storiche e irrisolte”. Dopo l’esuberante entusiasmo della fase di avvio, le partnership diventano fondamentali per molte realtà locali. Per sopravvivere, per scalare, per far evolvere il proprio modello di business, per risolvere non uno ma due o più problemi legati alla sanità.
Lo dimostra la storia di MPharm, partita offrendo un software per management della supply chain ai piccoli punti di distribuzione locali e diventata un franchising di farmacie. “Ci sono gabbiotti con prodotti scaduti o contraffatti, di solito, e rappresentano gli unici punti di riferimento per molte persone. Questa startup ghanese è riuscita a migliorare e standardizzare questi presidi lasciandoli in gestione da staff locale formato ad hoc. Si è evoluta lanciando una sua app di telehealth e sta creando partnership con aziende farmaceutiche. Il suo software iniziale è ora il nucleo di un sistema sofisticato capace di rispondere alle criticità del territorio in modo efficace. Questa non è ‘rocket science’, ma ha un impatto sociale enorme” racconta Giuliani.
Un’altra “role model” del settore è WellaHealth, provider di soluzioni digitali a cavallo tra la supply chain farmaceutica e l’assicurazione sanitaria. Il punto di forza di questa startup è un CRM che aiuta le farmacie a gestire prescrizioni e dati dei clienti e promemoria USSD, ma offre anche piani assicurativi contro quelle malattie “di tutti i giorni” che in Africa mietono ancora molte vittime. Per compiere un upgrade le servirebbero partnership con le organizzazioni che dispensano farmaci ricorrenti e scambi alla pari con player del settore big data.
Tra le startup decollate in silenzio ma con successo, molte hanno portato innovazione nei sistemi di diagnosi, nella gestione di Electronic Medical Records o di vaccini e farmaci. Oppure nella lotta contro la contraffazione, attraverso la blockchain, come Chekkit. “Non mancano esempi virtuosi, ma serve farli conoscere per dimostrare che il settore può essere profittevole. Da sempre la sanità africana è collegata all’operato delle ONG; quindi, investitori e aziende non la vedono come un’opportunità di business. Queste giovani imprese locali di successo possono aiutare a cambiare questa visione, ad abbandonare la logica di dipendenza dalle donazioni e aprire la strada a una nuova era. Quella in cui si può fare business in Africa, in modo etico e coerente. Anche guadagnandoci”.