Trust network e Smart Machine, come la società sta cambiando

Nell’epoca della società iperconnessa e guidata dalla tecnologia, le opportunità e gli ambiti di applicazione delle Smart Machine diventano innumerevoli e già oggi è possibile ‘toccare con mano’ quelle che sono le potenzialità, tecnologiche e di business, di molte delle soluzioni disponibili. Ad aprire nuovi scenari futuri è il concetto di Trust Machine nato sull’onda della tecnologia Blockchain nata come elemento infrastrutturale a supporto della circolazione dei bitcoin

Pubblicato il 31 Mag 2016

Smart-Machine

Partendo dall’assunto che, nella definizione convenzionalmente riconosciuta nel campo informatico, le Smart Machine sono ‘device intelligenti’ che sfruttano la tecnologia Machine-to-Machine come protocollo infrastrutturale di base, a differenza del ‘mondo’ che ruota attorno all’Intelligenza Artificiale entro il quale molti dei progetti rimangono nella sfera della ricerca e delle prime sperimentazioni, nell’ambito delle Smart Machine il livello di maturità tecnologica oggi raggiunta, consente alle aziende di ‘toccare con mano’ le sue potenzialità in progetti concreti già realizzati. Non accade sempre così.

“Stiamo iniziando ora a investire in modo diffuso su sistemi tecnologici che in realtà dal punto di vista della maturità hanno oltre dieci anni e partono dalle Soa – Service Oriented Architecture”, esordisce con una punta di ‘provocazione’ Alfonso Fuggetta, Amministratore Delegato di Cefriel. “Dieci anni fa il concept della tecnologia era tutto sommato abbastanza comprensibile, ma non si capivano le modalità attraverso le quali ‘mettere in pratica’ il modello e, soprattutto, quali potessero essere le condizioni abilitanti. Altro esempio: come accaduto per le Soa di dieci anni fa, il Cognitive Computing ha fatto il suo esordio da un punto di vista tecnologico, ma non è ancora maturo per generare investimenti diffusi dal punto di vista del business”.

Ciò su cui Fuggetta punta l’attenzione “è il gap che le tecnologie dirompenti provocano tra il claim (che indubbiamente mostra al pubblico ‘il fascino’ della tecnologia) e il loro reale utilizzo all’interno delle aziende, in particolare tra il lancio di nuove tecnologie e la consapevolezza del valore che possono generare”.

Diverso è, nell’idea di Fuggetta, se si analizza lo scenario delle Smart Machine che attraverso l’IoT, ma non solo, sta crescendo in modo significativo anche in Italia. “L’airbag di Dainese Dainese [D-air Street, la versione D-Air per i motociclisti su strada, lanciato nel 2012, che funziona senza alcun collegamento fisico con il mezzo e che, attraverso un’esclusiva tecnologia brevettata con Dainese, grazie al suo algoritmo intelligente, protegge pilota e passeggero nell’uso stradale riconoscendo la violenza della caduta e intervenendo in caso di impatto contro ostacoli fissi o in movimento o di caduta per scivolamento – ndr]  è una Smart Machine? Probabilmente sì. La lavatrice che riconosce il tessuto con cui è fatto un capo d’abbigliamento e stabilisce in modo automatico il programma di lavaggio, è una Smart Machine? Decisamente sì!”, prova a spiegare Fuggetta. “Se il tema Smart Machine può essere declinato nell’accezione di ‘inserire intelligenza all’interno di sistemi fisici’, siamo più avanti nella diffusione delle tecnologie; non solo ci sono investimenti continui sul piano della ricerca ma esistono ormai molti casi applicativi concreti: ci sono i ‘prodotti intelligenti’ e ci sono anche interessanti sviluppi all’interno delle linee di produzione (quello che viene chiamato Industry 4.0)”.

Le aziende che ‘guardano al futuro’

Le Smart Machine aprono indubbiamente interessanti scenari che oggi si stanno concretizzando, a un buon ritmo di adozione, in settori diversificati che vanno ben oltre il Finance, le Telco o le Utility (che generalmente hanno buona disponibilità di capitali per fare investimenti in innovazione), e interessano categorie quali il Manufacturing o i Trasporti, che in Italia rappresentano un importante tessuto di business. “In questi settori siamo fuori dalle innovazioni ‘nice to have’ (quelle interessanti ma che non generano valore per l’azienda) ed entriamo in quelle che noi chiamiamo tecnologie ‘stay in the race’ (se non adottate si rischia di uscire dai giochi competitivi) e, ancora più in là, ‘game changer’ (tecnologie grazie alle quali un’azienda è in grado di cambiare il mercato)”.

Tornando all’esempio dell’airbag di Dainese, questa è una tecnologia ‘game changer’: “Dainese non vende più solo capi di abbigliamento ma sistemi tecnologici per la protezione delle persone”, fa notare Fuggetta. “Oltretutto con un cambio di modello anche nel go-to-market, dato che sta iniziando ad offrire questa tecnologia ai costruttori di motociclette”.

“Un altro interessante esempio ‘made in Italy’ arriva da Candy – aggiunge ancora Fuggetta – che ha iniziato il suo percorso di innovazione portando sistemi di connessione wi-fi all’interno degli elettrodomestici allo scopo di poterne abilitare il controllo da remoto, e poi ha proseguito il percorso di innovazione”.

È un approccio forse un po’ più ‘basico’ quello di Generali Italia, per utilizzare le testuali parole del Cio,  Roberto Burlo, “improntato alla customer centricity, che però parte da una strategia vera e propria di Business Technology Transformation”. In questo momento l’azienda sta focalizzando l’attenzione sul miglioramento delle modalità operative dei propri agenti, da un lato, e dell’interazione e comunicazione con i clienti, dall’altro. “A fronte di ciò è evidente che ci stiamo anche ‘attrezzando’ per affrontare gli impatti dell’IoT che nel mondo assicurativo genereranno un epocale cambiamento; diversi i progetti in corso, dall’ambito delle black-box sulle autovetture, in Italia, fino alle tecnologie indossabili (progetto in questo caso in fase di avvio nel Gruppo Generali in Germania)”, precisa meglio Burlo.

“Allargherei il tema anche ad altre tecnologie, come per esempio il Machine Learning, che in questo momento è una delle tecnologie all’attenzione di chi vuole innovare”, interviene Massimo Messina Head of Group ICT di UniCredit, che prosegue: “Pur non essendo un concetto nuovo, è stato rivitalizzato dalle nuove soluzioni derivate dalle tecnologie Big Data e dai nuovi linguaggi di programmazione come Scala. Attraverso queste soluzioni si vuole sfruttare la grande quantità di dati disponibili per produrre servizi migliori per i nostri clienti, offrendo loro sempre maggiori opzioni commerciali personalizzabili, anche in tempo reale e in linea con le loro esigenze”, sostiene il top manager di UniCredit che, tornando al Cognitive Computing evidenzia come i campi di applicazione siano molteplici, “dalla valutazione dei rischi all’estensione di canali di contatto con il cliente in grado di offrire informazioni puntuali, interpretando il linguaggio naturale di mail, chat, conversazioni di vario tipo… In generale non dobbiamo pensare al  Cognitive come a una mera automazione, sostitutiva del processo umano, bensì come a una sorta di ‘protesi cognitiva’, complementare ai ragionamenti dell’utilizzatore, per suggerirgli possibili soluzioni in termini probabilistici e guidarlo nell’identificare ipotesi che hanno alta probabilità di accadimento. Per questo motivo, gli ambiti in cui questo approccio può trovare applicazione, anche in combinazione con il Machine Learning, sono molteplici, con attese interessanti sulla qualità dei servizi forniti”.

Gli impatti sull’It

“L’innovazione non può essere attuata semplicemente con un push tecnologico”, è la premessa di Fuggetta nell’analizzare gli impatti che le Smart Machine provocano sui Dipartimenti It aziendali. “Inserire dei sensori in un prodotto è solo il primo step della catena di innovazione, in funzione delle nuove potenzialità del ‘prodotto intelligente’ stesso vanno ridefiniti i processi produttivi (nonché quelli di ideazione e ingegnerizzazione stessa del prodotto), la supply chain, i modelli di go-to-market, i servizi di pre e post vendita… Di conseguenza, è fondamentale che tutti coloro che a vario livello sono coinvolti nella catena dell’innovazione, a partie dal Ceo, condividano questo approccio olistico, acquisendo il necessario grado di comprensione su che cosa realmente le tecnologie possono abilitare anche in termini di business. Per fare questo, è vitale che top management e It attivino un dialogo costante e lavorino continuamente fianco a fianco”.

“Mai come in questo momento vedo un interesse così esteso da parte di Generali e più in genere del mercato assicurativo, su tematiche tecnologiche”, sembra quasi smentire Burlo. “Se prima l’informatica veniva percepita come ‘la macchina’ per automatizzare i processi, oggi è riconosciuta come la macchina che fa muovere il business. Entrando nel merito dell’It, che si tratti delle ‘black-box’ per la registrazione e l’analisi di guida degli utenti, o di sistemi per la Smart Home, fino ad arrivare alla persona stessa con i wearable device (tutti scenari già oggi decisamente concreti), le criticità da indirizzare sono innumerevoli. Non si tratta solo di gestire un’enorme mole di dati, analizzarla e trarne conoscenza utile, dove gli analytics già oggi e i sistemi di Machine Learning e Cognitive Computing in futuro, offrono certamente delle risposte di valore; simili scenari portano un cambiamento dirompente anche nelle modalità di analisi e mitigazione del rischio, solo per citare una delle tantissime ripercussioni sul fronte del business, cui si aggiungono ovviamente anche criticità legate alle competenze”.

“Il mondo IT è sollecitato continuamente da innovazioni applicative e tecnologiche che si succedono con una frequenza sempre maggiore. L’integrazione di tutte queste possibilità rappresenta sempre una grande sfida. Di per sé la tecnologia cognitiva non è molto diversa da altre tecnologie avanzate già in campo; tuttavia il Cognitive Computing richiede una cultura applicativa diversa e una capacità immaginifica nuova: la frontiera del possibile deve essere spostata in avanti anche da un punto di vista culturale,  una sfida nella sfida insomma”, invita a riflettere Messina. “Alla fine ci troveremo di fronte a un sistema informativo federato che “assemblerà” tecnologie e componenti diversi,  da eseguire on premise o on public cloud, utilizzando interfacce aperte sia per accedere a servizi esterni, sia per essere acceduti e diventare così parte di ecosistemi complessi.  Di fronte a queste sollecitazioni saranno le competenze a fare la differenza e sarà importantissimo riuscire a creare quell’humus fertile su cui costruire le soluzioni del futuro, senza dimenticare le esperienze e le lesson learned del passato”.

Verso le ‘Trust’ Machine

Un esempio concreto di quanto sia più che mai necessaria la simbiosi business-It arriva dalle possibili implicazioni che potrebbe generare la tecnologia Blockchain, da molti ‘simpatizzanti’ battezzata come ‘la macchina perfetta che garantisce fiducia in una comunità’. Nata come elemento infrastrutturale a supporto della circolazione dei bitcoin [moneta elettronica creata nel 2009 da Satoshi Nakamoto – pseudonimo dietro al quale aleggia ancora un alone di mistero, non si sa effettivamente chi sia o siano -; convenzionalmente, il termine Bitcoin maiuscolo si riferisce alla tecnologia e alla rete mentre il minuscolo bitcoin si riferisce alla valuta virtuale – ndr], rappresenta una delle prime implementazioni strutturali della criptovaluta: a differenza delle tradizionali monete (emesse da enti centrali autorizzati e per la circolazione delle quali deve esistere un controvalore in oro), la tecnologia Bitcoin depaupera completamente il ruolo dell’ente centrale: le transazioni avvengono attraverso un database distribuito tra i nodi della rete e si sfrutta la crittografia non solo per proteggere le transazioni stesse ma anche per gestire gli aspetti funzionali come la generazione di nuova moneta e l’attribuzione di proprietà dei bitcoin. A rendere ‘non necessaria’ l’autorità centrale è una struttura peer-to-peer che non solo rende impossibile bloccare la rete ma addirittura ‘protegge’ la moneta virtuale da qualsiasi tipo di oscillazione (l’immissione di nuova moneta non genera svalutazione).

“La concatenazione di transazioni in una catena che viene rinforzata a ogni nuovo elemento che viene aggiunto rappresenta un sistema fiduciario perfetto; la complessità della crittografia è tale per cui il sistema non può essere ‘scassinato’ – spiega più in dettaglio Gianluigi Castelli, Professor of Management Information Systems Sda Bocconi School of Management, Devo Lab Director – la blockchain è una infrastruttura distribuita e programmabile di Trust e come tale può impattare qualunque ambito dove l’elemento fiduciario rappresenta l’asse portante”.

“La tecnologia blockchain è ancora in una fase iniziale e non ha quindi il livello di maturità di altre soluzioni tecnologiche affermate; tuttavia la potenzialità che porta con sé è evidente. Tale potenzialità non è limitata a un singolo settore, ma può estendersi in vari ambiti”, conferma dalla sua prospettiva Massimo Milanta, Chief Information Officer & Chief Security Officer di UniCredit. “Nel settore finanziario, la possibilità di definire una blockchain di istituzioni finanziarie che possano scambiarsi asset digitali, tramite una rete peer-to-peer in modo diretto (senza intermediari) e veloce (quasi real-time), può ridefinire il ruolo di diversi attori presenti nell’architettura attuale dei mercati finanziari, aumentando nello stesso tempo la trasparenza per i Regolatori (sulla blockchain è mantenuto infatti l’intero storico delle transazioni) e riducendo costi e complessità legati alla necessità di riconciliazioni tra registri privati – i registri privati sarebbero infatti rimpiazzati/integrati dal distributed ledger della blockchain”.

I capisaldi su cui si basa la blockchain sono due: la transazione, che rappresenta l’elemento di contenuto, ed i ‘blocchi’, elementi che registrano e confermano le transazioni (qual è la transazione, qual è la sequenza…). “Il sistema è general purpose perché il contenuto della transazione può essere di qualunque tipo (denaro, contratto legale o atto notarile, polizza assicurativa…); è la catena dei blocchi a garantire il meccanismo fiduciario”, puntualizza Castelli. “La decentralizzazione dei processi (che fa si che ogni blocco successivo abbia una copia del blockchain) è l’elemento davvero dirompente: è il confronto tra i diversi nodi che assicura l’uniformità dell’informazione e quindi la sua veridicità e correttezza”.

E sono proprio queste ‘premesse’ tecnologiche che stanno portando per esempio Generali ad osservare con attenzione questa tecnologia. “Potrebbe risultare molto interessante per noi applicarla ai cosiddetti ‘smart contract’ – descrive Burlo – per automatizzare e velocizzare tutto il processo delle liquidazioni delle polizze: a fronte di una tipologia di evento, certificato e garantito dall’oracolo (che potrebbe anche essere un sistema cognitivo), tutta la catena che porta alla liquidazione fino al pagamento di una somma al cliente potrebbe basarsi su tecnologia Blockchain. Volendo guardare anche solo all’ultimo anello della catena, il pagamento, stiamo guardando con grande interesse a come ‘si muovono’ le banche per capire quali possibili scenari si stanno prospettando sul fronte delle nuove modalità di pagamento”.

“Oggi, gli use case maggiormente citati sono payments, trade finance, supply chains, securities issuance…; questi vanno certamente declinati opportunamente prima di poter trovare ampio consenso, ma in ognuno di essi la blockchain può rappresentare un traino importante per introdurre innovazione e miglioramenti”, gli fa eco Milanta. “Anche la pubblica amministrazione può venire rinnovata dalla blockchain; in generale, infatti, le caratteristiche di ‘security’ e ‘immutability’ della blockchain ben si prestano a garantire l’integrità dei dati”.

Focalizzando l’attenzione sugli aspetti tecnologici, prendendo come spunto di riflessione la blockchain più nota, Bitcoin, e la grande potenza di calcolo di cui necessita, Milanta tiene a puntualizzare che “in realtà la potenza di calcolo richiesta da Bitcoin, e da altre blockchain simili, dipende dal protocollo utilizzato (proof of work). Esistono altre blockchain che implementano protocolli differenti e che, per questo motivo, non richiedono potenza di calcolo così elevata. Ciò che è interessante traslare verso sistemi enterprise sono quindi gli elementi distintivi della blockchain, come  la sua immutabilità derivante dalla ‘protezione’ dei blocchi,  piuttosto che le macchine in sé”.

Tecnologia interessante, dunque, sulla quale molti tra vendor ed aziende utenti stanno concentrando attenzione e sforzi progettuali, quanto meno a livello sperimentale. Ma, nella visione di Milanta, molte sono ancora le sfide aperte: “Una prima potenziale criticità è legata alle performance. Confrontando, infatti, la blockchain con altre soluzioni It, come quelle dell’area dei payments, risulta evidente che la blockchain al momento non è ancora in grado di supportare un numero di transazioni al secondo confrontabile con tali sistemi più tradizionali – fa presente in chiusura il Group Cio di UniCredit -. Un secondo punto d’attenzione è quello della segregazione del dato sulla blockchain (privacy). Per sua stessa definizione (distributed ledger), i dati sulla blockchain sono replicati presso tutti i nodi che compongono il network: ciò può ovviamente generare problemi di tutela della privacy che vanno affrontati con attenzione. Se consideriamo poi in particolare l’ambito finanziario, è chiaro che una vasta applicazione della blockchain non può non andare di pari passo all’evoluzione della normativa regolamentare. Per le banche e le istituzioni finanziarie è quindi essenziale che la nuova tecnologia venga ‘avvallata’ anche dai Regolatori e per questo occorre aprire da subito tavoli di lavoro per studiare nel dettaglio la tecnologia ed elaborare i relativi quadri normativi legali”.

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