Lo spirito è quello giusto. Essere attori di un convegno sapendo fin da subito che le parole servono ormai sempre meno ed è ora di passare alle proposte, dai dibattiti ai fatti. E se il tema in oggetto riguarda il pluriabusato ambito dell’ “Innovazione e competitività del Sistema Italia”, la voglia di fare diventa quasi un’urgente necessità. Dietro questo tema, infatti, si nasconde un Paese, l’Italia, che in termini di crescita e innovazione se la gioca ormai, nelle classifiche internazionali, soprattutto con Portogallo e Grecia ed è talvolta pericolosamente distanziata da nazioni un tempo a noi subito dietro (Spagna) e a noi vicine nel ranking (vi ricordate quando “ce la giocavamo” per il quarto posto in termini di crescita con la Gran Bretagna?).
Lo spunto per identificare cosa fare e soprattutto come farlo, viene da un’abilissima mossa di Idc (e del suo chairman Roberto Masiero), la quale ha riunito pochi giorni fa a Roma i top executive delle principali società di IT (Ibm, Microsoft, Siemens Informatica, Telecom Italia, HP, Accenture, Sap, Eds, Getronics, I.Net, T-Systems) insieme ad economisti, rappresentanti del Governo e due Agenzie, Italia Lavoro (totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) e Innovazione Italia (costituita per dare attuazione ai programmi del Governo in materia di sviluppo della società dell’informazione e di e-government) per dibattere e proporre in merito al tema dell’ “Innovazione tecnologica, sviluppo dell’occupazione e nuova competitività del Sistema Paese” (con una focalizzazione soprattutto verso le aree del Mezzogiorno – vedi il dettaglio dell’evento nel servizio di pag 10). “E’ tempo di prendere l’iniziativa per cercare di cambiare le cose – ha premesso Masiero nella sua relazione – Soprattutto è ora di far emergere quel ‘fiume carsico dell’innovazione’ che pure c’è in Italia, ma che è disperso in mille rivoli. Solo nel Mezzogiorno ci sono oltre 800 progetti Ict; ma bisogna sapere cosa fanno e soprattutto renderli ‘sistema’. Si deve costruire un “cantiere di progetti” che individui, capitalizzi e sviluppi innovazione. E’ tempo che gli attori interessati prendano l’iniziativa diretta”.
E’ una goccia. Una goccia nel mare del cambiamento che l’Italia dovrà compiere, e anche rapidamente, per decidere del suo futuro. Intanto, come ZeroUno, registriamo senz’altro il segnale forte che Idc lancia e che si inserisce in un più generale “debole segnale” di reazione ed azione diretta che diversi attori, dell’Ict ma anche dell’ambito imprenditoriale e associativo italiano, stanno intraprendendo negli ultimi mesi per “smuovere le cose e le coscienze”, per non restare alla finestra e vedere il paese (e i loro business) andare pericolosamente alla deriva.
Detto questo, cerchiamo di essere realisti. Come Italia, partiamo oggi da una situazione oggettivamente difficile. Non è il caso di fare un elenco delle inefficienze, obsolescenze e contraddizioni che caratterizzano il nostro paese. Esistono però situazioni parecchio critiche, emerse nel convegno, a partire dalle quali si possono fare proposte e progetti di miglioramento.
Come generare quindi una crescita a livello Paese? Le nazioni che rilevano oggi tassi di crescita sono quelle in grado di attrarre gli investimenti. Ciò accade sempre meno oggi in Italia perché spesso gli organismi preposti sono tra loro disallineati e la burocrazia disincentivante. “Le aziende italiane tecnologicamente evolute, ben gestite e reattive alle variabili di mercato crescono ovunque. Partecipano alla dimensione globale dell’economia – ha sostenuto l’economista Giacomo Vaciago dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. – Crescono ovunque tranne che in Italia, perché è l’Italia, come sistema, che non è attrattiva per gli investimenti esteri”.
L’Italia vive inoltre un forte gap di innovazione rispetto ad altri Paesi. Lo stesso Capitani, presentando pochi giorni fa a Milano la nuova edizione del Rapporto Assinform, ha sottolineato come “i macchinari e le attrezzature produttive continuino a registrare investimenti sempre più alti da parte delle aziende rispetto all’Ict e quando le imprese innovano, ricercano in primis l’efficienza nei processi di produzione, ma molto meno, ad esempio, nell’innovazione marketing, organizzativa e soprattutto di prodotto”. Non c’è quindi da stupirsi se Idc rilevi come in Italia solo il 20% delle Pmi utilizzi l’Ict finalizzandolo ad un miglioramento della propria capacità competitiva.
Se guardiamo poi alla dimensione “infrastrutturale” del Paese, riferendoci alla situazione di Scuola, Università e Ricerca, emerge il pericoloso immobilismo attuale. L’Università avrà anche aumentato le risorse finanziarie, ma non è affatto migliorata la capacità di finalizzare l’ottenimento della laurea allo sbocco lavorativo. Oggi i nostri laureati, a parte alcune minoranze di eccellenza, rischiano di essere sempre più disoccupati. L’università italiana è ancora oggi un sistema corporativo, autoreferenziato, scarsamente meritocratico, distante dai modelli di studio internazionali, con insufficienti risorse destinate alla ricerca. Le nostre lauree sono sempre più posizionate nell’area umanistica e giuridica mentre pochissime sono quelle nell’ambito scientifico.
Sul piano politico, poi, è evidente che non si è riusciti a strutturare un piano organico di individuazione delle eccellenze e dei punti forti su cui costruire un’economia di valorizzazione delle nostre specificità, di allineamento con i criteri e i meccanismi di sviluppo internazionali e a riorganizzare il sistema pubblico in una “filiera delle istituzioni” capace di affrontare in maniera organica i problemi di competitività e di rilancio del nostro Paese (un male, va sottolineato, che parte da lontano).
“Ma è l’intero sistema che deve essere in grado di definire una politica e una strategia centrata sulla crescita della produttività modificando le combinazioni produttive” (Vaciago) e, aggiungiamo noi, finalizzando a obiettivi di crescita e anche di qualità sociale, quelle realtà (sistema bancario, educativo, produttivo e di trasporti), che oggi sono pericolosamente autoreferenziate e non coordinate in un disegno comune strategico. “Le aziende sono strozzate dal punto di vista finanziario mentre la burocrazia è ancora troppo miope. Mancano oggi ingegneri qualificati? Per assumere un ingegnere indiano altamente specializzato, il percorso è esattamente lo stesso che se si assumesse una badante” (Enrico Casini – Ad Inet).
“Nessuno ha mai vinto la guerra del futuro con le armi del passato” ha esemplificato Andrea Pontremoli (AD di Ibm Italia – vedi intervista esclusiva a pag.12) come sintesi della sua visione di questo momento. Serve, questa in sintesi la ricetta di Pontremoli, capire le regole del gioco della globalizzazione ed adeguarvisi. Le aziende, anche attraverso un ruolo nuovo, più di partnership, dei fornitori, devono essere in grado di capire il modello di business a cui tendere e solo da questo far discendere le scelte di investimento in Ict. “Certo è che per accettare questa sfida – ha detto Pontremoli – bisogna muoversi attraverso delle regole generali definite e indirizzate alla leva dell’innovazione”. Accettare la sfida significa avere una vision di prospettiva. E sul piano politico significa non finalizzare ogni cosa al risultato elettorale. “Serve un patto governo-opposizione, un patto con il sindacato per pianificare una strategia a medio-lungo termine sulle questioni vitali dell’economia e della crescita del Paese ( Patrizia Greco – Ad di Siemens Informatica). “L’Italia è pronta alla fase di proposizione – ha detto Nicola Aliperti , Ad di HP. – Anche le cose piccole possono aiutare. Ad esempio perché i fornitori di Ict non si fanno interpreti di supportare le Pmi ad accedere ai fondi europei magari anche con un ruolo delle banche che possano complementare questi fondi sulla base di una valutazione dei progetti più innovativi e non esclusivamente del rating?”. Insomma, proposte e voglia di muoversi. Gemellaggi tra licei europei per uno scambio obbligatorio di frequenza corsi; riportare l’attenzione sui capitali di rischio; agire sull’erogazione del credito per rinvigorire un’abitudine imprenditoriale al rischio, che sta invece scomparendo; imprese che sviluppino con le università progetti da poter rivendere all’estero; avvicinare i giovani al mondo scientifico; definire un piano pluriennale industriale delle pubbliche amministrazioni rivedendo in un’ottica di efficienza i processi di backoffice. Sperando infine che possano cadere, a rischio di una lenta ma inesorabile emarginazione del Sistema Italia dai meccanismi di sviluppo e di crescita globale, quei “muri e diaframmi che esistono nel mondo della politica per cui ancora oggi di Ict e competitività non se ne parla abbastanza”. E se questa affermazione arriva da Lucio Stanca, Ministro dell’Innovazione Tecnologica, a chiusura del convegno, vuol proprio dire che è venuto il momento di agire e fare “breccia nel muro”.
Una breccia nel muro
Lo spirito è quello giusto. Essere attori di un convegno sapendo fin da subito che le parole servono ormai sempre meno ed è ora di passare alle proposte, dai dibattiti ai fatti. E se il tema in oggetto riguarda il pluriabusato ambito dell’ “Innovazione e competitività del Sistema Italia”, la voglia di fare diventa quasi un’urgente necessità
Pubblicato il 02 Lug 2005
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