È un corpo vivo. Il cloud, nel suo disegno architetturale, sta rivelandosi in continua evoluzione alla ricerca di quella massima flessibilità di erogazione di servizi che le aziende stanno chiedendo. Tra i principali trend tecnologici che Gartner invita a tenere sott’occhio nel 2020 e per i quali prevede una prima affermazione nel corso dell’anno (al netto del rallentamento mondiale, non previsto, dovuto alla pandemia da Coronavirus) c’è il cloud distribuito.
Si tratta della possibilità di distribuire servizi di cloud pubblico al di fuori dei data center dei provider che però, nonostante non debbano necessariamente avere la proprietà di alcuni sistemi su cui risiedono dati e servizi propri dell’utente, mantengono la responsabilità sull’efficacia del servizio globale erogato in termini di sicurezza, governance e aggiornamenti tecnologici.
Ripetiamo, estendendolo nell’analisi, quanto abbiamo accennato nel precedente articolo di ZeroUno sui trend previsti da Gartner perché è importante fissare bene le tre modalità ipotizzate nel percorso evolutivo di questo modello di cloud distribuito:
- Fase 1: il cloud provider offre servizi distribuiti che sono un sottoinsieme dei servizi del suo cloud centralizzato.
- Fase 2: si avvia una collaborazione tra cloud provider e terze parti per fornire a specifiche comunità target di imprese, sottoinsiemi di servizi del cloud centralizzato attraverso la fornitura effettuata da terze parti. Tipicamente l’esempio può essere la distribuzione di servizi attraverso un provider Tlc in grado di rispettare la normativa su privacy e dati di quel paese dove il provider principale non dispone di datacenter sul territorio.
- Fase 3: vengono condivisi specifici sottoinsiemi di servizi cloud distribuiti per community di aziende attraverso una logica di “sottostazioni”. Il termine non viene proposto a caso da Gartner. Sottostazioni serve per dare l’idea di una specie di filiale distribuita sul territorio, (quasi un ufficio postale locale) a cui le aziende si rivolgono per l’acquisto di servizi, sia generali e comuni, sia specifici di territorio. Di fatto si ripropone il modello concettuale di public-private, dove il primo eroga servizi generali e la “sottostazione” (ancora una volta magari un Tlc provider locale), quasi in una logica “private” per aziende del territorio, eroga servizi specifici e in rapporto ad una domanda locale. Questo modello a sottostazione è in grado di garantire connessioni continue così come operazioni connesse ad intermittenza con il datacenter più vicino del cloud provider principale, migliorando affidabilità e capacità di performance globale nonché rispondendo all’esigenza di connessioni occasionali con il provider centrale per specifici servizi in risposta a particolari scenari/progetti.
Ce n’è abbastanza per una breve intervista a David Mitchell Smith, Distinguished VP Analyst di Gartner in cui chiedergli alcune veloci riflessioni su questa ipotesi evolutiva architetturale.
Sia perché questo modello di distributed cloud è nella sua fase di formalizzazione e studio iniziale, sia perché i documenti Gartner su questo tema sono gelosamente custoditi (e venduti), Smith ci ha lasciato solo alcuni veloci highlights utili però a sviluppare considerazioni di fondo.
Sicuramente il contesto in cui il modello di cloud ibrido (inteso nella sua accezione più ampia, non solo quindi private-public cloud ma anche esteso a un’integrazione con tecnologie on premise) si arricchisce di questa componente distribuita, risponde a un’esigenza emersa in questi anni di ripensamento architetturale as-a-service: la location fisica dei dati e dei servizi cloud, che, dopo i periodi iniziali dello sviluppo del modello sembrava non avere molto peso, in realtà si è rivelata essere prioritaria per molte imprese. La location (dove vengono erogati i servizi) diventa quindi, con il distributed cloud, un parametro di definizione importante per l’erogazione di un nuovo stile di servizi sicuramente in grado di meglio rispettare le normative legate a privacy e residenza nazionale dei dati.
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Attori di riferimento sul territorio
“Le terze parti svolgono un ruolo importante nella distribuzione del modello cloud, diventano di fatto dei servant funzionali che replicano ed estendono i servizi del central provider – dice Smith – È interessante considerare la possibilità, per le terze parti, di specializzarsi in specifici ambiti in relazione alla loro profonda conoscenza delle esigenze del territorio in cui operano. Questo si può tradurre in una capacità di aggiungere valore e supportare con nuovi servizi le opportunità di sviluppo del business”. Inoltre, ricordando le diverse ipotesi di sviluppo del modello di cloud distribuito nelle tre fasi, c’è la possibilità per le terze parti di specializzarsi anche in mercati verticali ai quali offrire sottoinsiemi specifici di servizi cloud. Terze parti che svolgerebbero, in questo modo, anche una funzione di raccordo con il provider centrale perché possa offrire nuovi servizi cloud da dedicare a segmenti verticali e a specifiche region territoriali.
Previsioni di affermazione diffusa di questo modello, Gartner non le propone in quanto, secondo Smith, siamo ancora in una fase embrionale di questa architettura, più propriamente nella Fase 1, di mirroring di un sottoinsieme dei servizi del cloud centralizzato in forma distribuita, “senza contare – come dice Smith – che esiste ancora una grande presenza di sistemi on premise e che solo fra una decina di anni il modello cloud sarà davvero il modello elaborativo di riferimento”.
Critici, su questo modello, anche gli aspetti relativi alla security per i quali, suggerisce Smith, “la sfida per ogni azienda sarà trovare il giusto bilanciamento tra esigenze di flessibilità operativa e normative in tema di privacy dei dati e di protezione generale dell’architettura distribuita, rispetto alla quale importante sarà definire con precisione i perimetri di responsabilità tra i diversi attori”.
Attribuzioni di responsabilità in ambienti sempre più flessibili e ibridi
Proprio per questo motivo Gartner prevede la possibilità di un ampio spettro di modelli di cloud distribuito, in cui il disegno tra provider e aziende dovrà porre attenzione alla definizione dei corretti livelli di responsabilità di servizio e di proprietà di sistemi (del provider o dell’utente) che tipicamente strutturano un modello ibrido (considerando anche che alcune piattaforme distribuite potrebbero non essere in grado di far girare correttamente servizi che invece sono disponibili solo nella piattaforma centrale).
Quanto può essere responsabilità del provider la corretta distribuzione di un servizio su un cloud distribuito in cui l’hardware, proprietà dell’utente, condivide software e servizi on premise sulla stessa piattaforma? Come disegnare un corretto accordo in cui la responsabilità del provider si riferisca solamente alla qualità e all’update dei servizi cloud distribuiti? Ma in questo caso è facile accettare, dalla prospettiva dell’utente, una sorta di servizi cloud “black box” gestiti dal provider che girano sui sistemi on premise?
Sono solo pochi esempi della complessità intrinseca allo sviluppo corretto di questo modello. Tuttavia, come già sosteneva Gartner in un suo studio dello scorso anno, il processo di flessibilizzazione e di decentralizzazione delle architetture datacenter è ormai continuo, e procede verso un modello sempre più ibrido, tant’è che dal 2025 il numero dei micro datacenter dovrebbe quadruplicarsi (la capacità computazionale in genere aumenterà di cinque volte per metro quadro rispetto agli attuali enterprise datacenter) a seguito di un continuo avanzamento tecnologico legato a reti 5G, nuove generazioni di batterie, infrastrutture iperconvergenti, diffusione delle architetture software defined in una direzione di semplificazione, intelligenza e automazione (anche grazie ad AI e ML diffuse), razionalizzazione e standardizzazione.