Dopo tante chiacchiere e digressioni intorno al cloud, è arrivato il momento della concretezza e dei bilanci. Quali sono i primi risultati effettivi ottenuti dai progetti di It as-a-service? Le promesse di risparmio e flessibilità sono state mantenute o disattese?
Per dare una risposta esaustiva a queste domande è indispensabile individuare gli strumenti più adatti a calcolare i vantaggi delle implementazioni sulla nuvola. Se il cloud impone un modello di rottura, è possibile effettuare delle stime utilizzando metriche e metodi tradizionali? In sostanza, si può parlare ancora e in che termini di Return on investment?
“Bisogna innanzitutto – ha spiegato Stefano Mainetti, codirettore scientifico dell’Osservatorio Cloud & Ict as a Service, School of Management del Politecnico di Milano – fare una distinzione tra nuvola privata, pubblica e ibrida. Sul private cloud, in effetti, è possibile applicare la formula del Roi: per esempio, si può calcolare il risparmio raggiunto su ogni macchina virtualizzata rispetto alla corrispondente fisica. Così, nella roadmap che porta dalla virtualizzazione al consolidamento del data center, fino alla realizzazione di un vero e proprio cloud privato, l’azienda dispone di elementi tangibili per misurare i benefici conseguiti in ogni fase del progetto e quindi valutare sulla base dei numeri la convenienza del passaggio allo stage successivo. Non c’è discontinuità dall’It tradizionale e il cloud diventa soltanto un catalizzatore del percorso in atto. Dopotutto, questo tipo di implementazione presuppone degli investimenti in asset specifici, dai server alle componenti software fino alla formazione delle risorse umane, perciò è possibile calcolare un Roi”.
Public cloud: nuovi parametri per il calcolo del Roi
Si presenta ben diversa la situazione in un contesto di public cloud e la motivazione è facilmente intuibile: la mancanza di costi fissi alla base. “Non si comprano tecnologie – ha ricordato Mainetti -, ma piuttosto servizi che si pagano a consumo. Il modello rompe di netto con il passato e cambiano radicalmente i criteri di valutazione dei benefici: l’asse del valore trascende il semplice bilancio tra spese e ricavi, spostandosi verso un più significativo rapporto prezzo-prestazioni. Gli esempi nella vita privata si sprecano: una cena al ristorante, economicamente più dispendiosa rispetto a un pasto consumato tra le mura domestiche, risulta in definitiva più vantaggiosa perché permette di risparmiare tempo e fatica nella preparazione oppure perché regala maggiori soddisfazioni dal punto di vista culinario e sociale”.
Si entra così in una zona di benefici dove, seguendo gli schemi econometrici tradizionali, l’azienda riesce a liberare le proprie infrastrutture dai costi fissi, usufruendo in aggiunta di tutta una serie di vantaggi intangibili, dalla flessibilità alla customer satisfaction: è chiaro che il Roi, risultante dalla somma di risparmi misurabili da un lato e fattori non quantificabili dall’altro, sembra altissimo, ma questo è un calcolo decisamente fuorviante e inapplicabile al paradigma della nuvola pubblica.
“In questo scenario – ha commentato Mainetti – cambia il ruolo della direzione informatica, che deve gestire l’It come business per il business, costruendo i sistemi informativi non sulla base di asset fisici, ma su un insieme di ‘mattoncini’, i servizi appunto, che vengono comprati all’occorrenza e distribuiti all’utente finale in base alle necessità. Diventa più complicato a questo punto il calcolo dei benefici: per esempio, portando il sistema di posta elettronica sulla nuvola, non solo si evitano i costi fissi della piattaforma interna, ma viene messa a disposizione dei dipendenti anche una soluzione di video conferenza con il vantaggio di migliorare la collaboration e aumentare il livello di produttività. Ma sono questi benefici misurabili? Ecco che allora – prosegue Mainetti – il responsabile It deve assumersi dei rischi e diventare un imprenditore, capace di definire un vero e proprio business case, allargando l’indice economico dal Roi al margine operativo lordo ed estendendo la gamma di fattori da tenere in considerazione durante il processo decisionale. Deve essere in grado, infatti, di mettere sul piatto della bilancia sia gli obiettivi tangibili sia quelli intangibili, capire quali asset tenere in casa e quali gestire as-a-service sulla base delle esigenze aziendali e della fattibilità”.
In un ambiente disruptive come quello del cloud pubblico, il Cio è costretto a rimettersi in gioco continuamente: non solo deve essere capace di elaborare un piano imprenditoriale che tenga conto anche degli effetti di lunga durata, ma per ogni servizio deve maturare competenze specifiche e dimostrare l’efficacia della scelta.
La situazione si complica ulteriormente in caso di hybrid cloud: “A questo modello intermedio – ha spiegato Mainetti – sono associate formule di costo miste: dove il driver del controllo sugli asset è dominante e si propende per soluzioni di private cloud, sarà il Capex a prevalere all’interno del conto economico; mentre dove le esigenze principali sono il contenimento delle spese e la flessibilità, si guarderà al paradigma pubblico e a pesare sul bilancio sarà soprattutto l’Opex. Qui spetta all’abilità del Cio determinare il mix corretto e la giusta strategia imprenditoriale”.
Dove trovare i vantaggi maggiori
Ma quali sono le implementazioni cloud più redditizie allora?
“Certamente – ha dichiarato Mainetti – un Chief financial officer sarà portato a guardare con interesse i progetti di cloud pubblico: in questo modo, infatti, l’azienda si farà carico solo di costi operativi e non di un investimento in asset sul lungo periodo, che, anche in caso di dismissione anticipata, comporta dei pagamenti in tasse. Sarà quindi libera di valutare i benefici ottenuti dopo un certo lasso di tempo, decidendo se rinnovare o interrompere il contratto stipulato senza caricarsi di alcun onere”.
Sul fronte della nuvola privata, l’efficacia degli investimenti è direttamente proporzionale al livello di inefficienza dei sistemi esistenti. “Ci sono casi di Infrastructure as a service – ha confermato Mainetti – in cui i costi sono stati ripagati nel giro di soli sei mesi proprio perché la situazione iniziale del data center era gravemente diseconomica. A partire da queste infrastrutture, proseguendo nella roadmap evolutiva del cloud, si possono aggiungere progetti di platform e software as-a-service coerenti, abilitando un percorso virtuoso verso la razionalizzazione e aumentando sempre di più l’efficacia dei ritorni”.
Sintetizzando in estremo, la rotta verso la nuvola è in realtà un itinerario step-by-step verso la governance: tanto più un’azienda è disorganizzata tanto più sarà in grado di ottenere benefici significativi dal cloud; un concetto che può condizionare anche la scelta del modello pubblico. “Di tanti case study analizzati – ha esemplificato Mainetti – solo un grande istituto bancario ha dichiarato che il sistema di posta elettronica gestito internamente risultava più vantaggioso rispetto a quello proposto da un cloud provider leader internazionale. Si trattava di un’azienda dotata di infrastrutture consolidate, che aveva già affrontato un preciso percorso di ottimizzazione degli asset ed era quindi pronta per cogliere appieno tutti i vantaggi derivanti dagli sforzi fatti in passato. In un ambiente non altrettanto coerente, è ovvio che il paragone con le offerte di cloud pubblico non regge: accendere una macchina virtuale internamente risulterà la scelta meno appetibile sotto il profilo economico”.
Se nel caso di cloud privato la convenienza va ricercata nel livello più o meno alto di efficientamento dei sistemi informativi, nel paradigma public risiede nelle politiche di pricing del vendor, ma anche nella qualità del servizio e nella soddisfazione delle aspettative: come già detto, l’azienda opterà per il pacchetto che garantisce il migliore rapporto prezzo-prestazioni e risponde a una serie di requisiti intangibili. “La business continuity – ha suggerito Mainetti -, per esempio, diventa per alcune aziende un criterio di scelta cruciale, che fa passare in secondo piano il costo del servizio. Portare sulla nuvola pubblica le applicazioni che risiedono già su server interni presuppone una spesa iniziale, che non sempre viene considerata necessaria; eppure il passaggio all’esternalizzazione può portare al conseguimento di ulteriori benefici, come l’aggiunta di nuove funzionalità che abilitano un modo di lavorare più redditizio. Misurare i vantaggi del cloud allora diventa una vera e propria sfida, che presuppone la capacità di individuare i giusti key performance indicator. Il Roi in questo caso è miope”.