Il public cloud rappresenta una rivoluzione importante nel panorama IT, ma ciò non significa che possa essere la soluzione ideale per tutti.
Può capitare che, dopo un periodo passato sul cloud, un’azienda decida di spostare nuovamente le proprie VM on premise.
Chi si trova in questa situazione, secondo gli esperti, deve considerare una serie importante di fattori prima di procedere nuovamente alla migrazione, tenendo conto soprattutto della componente di rischio.
Perché si sceglie di abbandonare il cloud?
La ragione più comune che spinge le aziende a voler tornare alla gestione on premise è quella definita dagli esperti bill shock, ovvero il collasso mentale dovuto al pagamento di una cifra che si pensava inferiore rispetto al tipo di servizio scelto.
Come è possibile? Spesso ottime promozioni iniziali spingono le aziende a sottoscrivere il servizio, ma il tasso reale finisce per essere significativamente superiore a quello previsto. Le motivazioni di chi vuole tornare in dietro dal cloud, però, non sono solo economiche: alcuni sono spinti dalle normative locali relative alla conservazione dei dati o da strategie aziendali di risk mitigation.
Infine, più semplicemente, c’è chi sceglie di abbandonare il cloud perché quest’ultimo non ha soddisfatto le aspettative. Gli host di sviluppo inutilizzati possono finire per essere eccessivamente costosi, se non correttamente monitorati.
Qualche considerazione non tecnica preliminare…
Prima anche solo di pensare a una migrazione inversa dal cloud, gli esperti raccomandano di prendere in considerazione un certo numero di elementi non strettamente tecnici. Primo tra tutti: cosa dice il contratto sottoscritto con il fornitore cloud in merito all’eventualità di risoluzione anticipata? Questo punto, più che altro, potrebbe rappresentare un problema se si è scelto un fornitore più piccolo rispetto ad Amazon Web Services, Azure o Google che sono estremamente corretti e puntuali nella definizione degli SLA. Sempre e comunque, sottolineano gli epserti, vale la pena di verificare indipendentemente dal provider. In seconda battuta, è consigliabile controllare la propria licenza.
Un amministratore, infatti, non può semplicemente migrare dal cloud in locale e continuare a utilizzare la macchina come se fosse ancora sul cloud. Prima della migrazione, è necessario controllare una a una tutte le clausole presenti nella licenza relative a sistema operativo e applicazione. In caso di dubbio, sempre meglio chiedere e ottenere una conferma scritta. Se si sta cercando di migrare da una platform-as-a-service (PaaS), meglio accertarsi di disporre di tutte le dependency.
Un altro aspetto critico è legato alla possibilità di ritrovarsi con un imprevisto addebito del fornitore. La maggior parte dei provider più grandi addebita in base ai megabyte dei dati in uscita: ciò significa che se un amministratore sta spostando molti terabyte di dati, il costo di uscita potrebbe rivelarsi molto oneroso. Un esempio? Amazon addebita 0,090 dollari per ogni gigabyte.
Eseguire la migrazione delle VM utilizzando un convertitore
A seconda del provider, passare dalla gestione cloud delle VM cloud a quella on premise può essere molto difficile. Gli esperti sottolineano che, quando si torna a un ambiente locale, è necessario utilizzare un convertitore VMware per ricreare i file VMDK. A seconda delle dimensioni delle VM, questo processo potrebbe richiedere molto tempo (anche in base alle dalla capacità di rete). Inoltre, se si utilizza il convertitore, il processo va eseguito a server spento e ciò comporta diverse ore di inattività per ogni virtual machine. Gli esperti sottolineano che, nel caso di Azure, questo processo è leggermente più facile, dato che Azure e Hyper-V utilizzano il formato del disco VHD. In poche parole, ciò significa che la migrazione della macchina effettiva (esclusi rete, Active Directory ecc…) diventa facile tanto quanto utilizzare il browser Web per scaricare i file VHD e allegarsi a una nuova VM che non dispone di dischi. Questo può funzionare per un numero limitato di server, ma non è una strada percorribile se si intende lavorare con molte unità.
Diversi provider di disaster recovery e replication software offrono un ventaglio di strumenti utili per effettuare la migrazione. Alcuni prodotti, come per esempio Zerto, rimuovono la necessità di ulteriori passaggi di conversione, ovvero eliminano la necessità di dover effettuare manualmente conversioni sul disco e copia di dischi. Il reale vantaggio di questo tipo di soluzioni è rappresentato anche dal fatto che consentano all’amministratore di ridurre significativamente i tempi di fermo dato che eseguono una replica continua. Dopo la sincronizzazione iniziale verso l’ambiente in locale, il cutover può iniziare. Il risultato finale è una notevole diminuzione del tempo di immissione e della failback capability. Tuttavia, viene lasciata all’amministratore la facoltà di configurare rete, Active Directory e altre application dependency, che possono essere trattate come processo a sé stante.
In sintesi, la possibilità di spostare le VM dal cloud agli ambienti on premise è possibile e ci sono strumenti che possono aiutare a ridurre al minimo la complessità e i downtime, garantendo la business continuity. Tutto sommato, notano gli esperti, la migrazione in sé è la parte più semplice da affrontare. Prendere in considerazione altri aspetti meno strettamente tecnici – come i costi di disdetta dei contratti e le licenze – può essere invece più complesso e meno immediato. In questo scenario, l’impiego di strumenti per la migrazione può non essere molto economico, ma di certo semplifica notevolmente il processo. Una volta che l’amministratore ha completa il lavoro, consigliano gli esperti, le licenze possono essere riciclate e utilizzate per finalità di disaster recovery.