Solo il 4% dei responsabili IT di 100 aziende italiane di un campione rappresentativo utilizza esclusivamente data center non abilitati per il cloud. A paragone degli altri paesi, in Italia si registra il più elevato impiego di cloud privato (35% contro una media globale del 22%), ma la propensione a eseguire più applicazioni sul cloud pubblico trova riscontro nel 52% degli intervistati. Nell’arco dei prossimi 5 anni, il 56% delle aziende italiane è deciso a passare a un modello di cloud ibrido integrato.
Sono alcuni dei risultati emersi della terza edizione dell’Enterprise Cloud Index, indagine che Nutanix ha commissionato alla società britannica Vanson Bourne che si basa sulle risposte di 3.400 responsabili IT appartenenti ad aziende di varie dimensioni e settori presenti in America, Europa, Medio Oriente, Africa, Asia-Pacifico e Giappone.
Il ritratto che viene fuori dell’Italia mostra non solo che siamo in linea con le altre nazioni, ma perfino più avanti rispetto ad alcuni indicatori. Ad esempio, in merito agli investimenti in cloud ibrido come diretta conseguenza della crisi pandemica il 69% degli intervistati italiani segna un distacco dalla media globale del 46%. Ma le rivelazioni del report vanno anche oltre, come sottolinea Alberto Filisetti, Country Manager di Nutanix Italia, commentando i numeri dell’Index che si riferiscono al nostro paese.
Le ragioni che spingono in Italia verso una nuova infrastruttura IT
Tra gli aspetti più sorprendenti dello studio spiccano le motivazioni che guidano i responsabili IT italiani verso il cambiamento dell’infrastruttura IT. Quella economica, che si posiziona con il 12% all’ottavo posto, non risultata essere la principale.
Sul podio (62%) c’è il miglioramento del supporto per una platea di lavoratori che operano da remoto, seguito da un maggiore controllo dell’utilizzo delle risorse IT (54%) e da una flessibilità superiore per soddisfare le esigenze aziendali (49%). “In Italia – dice Filisetti – l’utilizzo di lavoratori da remoto è molto più diffuso a paragone del resto del mondo e il fatto che tenda a diventare permanente è la cosa che mi ha più stupito dell’analisi”. In effetti, se si pensa che fino a prima della pandemia il numero di smart worker nelle nostre aziende era tra i più bassi d’Europa, lo stupore è legittimo. Non meraviglia, invece, il crescente interesse verso il paradigma del cloud ibrido, “la risposta che in molti si sono dati per andare a ottimizzare i propri processi, a patto che non generi complessità aggiuntiva. Non c’è ancora la piena maturità di una suite, di un framework che consenta l’ibridizzazione tra il cloud privato e il cloud pubblico e si è in attesa di una chiave che metta i due mondi in comunicazione facilmente”.
L’importanza delle competenze, l’opportunità del Recovery Fund
L’Enterprise Cloud Index fa emergere anche altri elementi sui quali, secondo Filisetti, è il caso di riflettere. Uno su tutti è la preferenza marcata a favore del cloud pubblico, soprattutto in modalità SaaS (Software-as-a-Service) e IaaS (Infrastructure-as-a-service): “Far fare a terzi quello che prima facevamo in casa significa che stiamo impoverendo le nostre skill” sostiene tuttavia il Country Manager, aggiungendo che l’ideale sarebbe la coesistenza di cloud privato e pubblico in ottica complementare.
Resta in questo caso dirimente il tema delle competenze. “Oggi stiamo vivendo un’evoluzione nell’Information Technology per motivi diversi, non ultimo la pandemia che ha portato un’accelerazione nei processi di trasformazione digitale come mai abbiamo vissuto negli ultimi 20 anni. La parte di competenza e di formazione sarà la chiave per le aziende che vorranno essere di successo”. Su questa strada, oltre ai contesti formali di studio come le università, le stesse aziende sono chiamate a investire.
Il che, se prima poteva essere considerata un’obiezione, con le risorse messe a disposizione dal Recovery Fund dovrebbe essere superata. “Abbiamo un’opportunità che difficilmente avremmo avuto se non fosse accaduto quanto sta accadendo. Si tratta adesso di scaricare a terra il cambiamento e oggi abbiamo uno strumento, come il Recovery Fund, che può sostenere le aziende nel portare avanti i loro progetti di innovazione. Sono certo che nei prossimi 2-3 anni riusciremo a recuperare il gap rispetto ad altre nazioni europee”.
L’innovazione vera che serve alle aziende per cambiare
Volendo fare un paragone, c’è stato in precedenza un meccanismo di incentivi e agevolazioni fiscali (tuttora vigente, seppure con regole differenti) che ha favorito la digitalizzazione delle imprese, con particolare riguardo a quelle che operano nel manifatturiero, cioè il Piano nazionale Industria 4.0, oggi Transizione 4.0. “Fattori esogeni, che vanno dagli incentivi da una parte a necessità come la pandemia dall’altra, spesso sono fautori di accelerazione” rimarca Filisetti. Lo studio di Nutanix lo conferma, visto che tre quarti degli intervistati italiani hanno affermato che il Covid-19 ha conferito all’IT maggiore valore strategico all’interno delle organizzazioni. “Adesso le aziende, fatta la prima rincorsa nell’adeguarsi ad esempio al lavoro da remoto, si stanno stabilizzando. Basti pensare al concetto di trasformazione digitale di cui si parla da anni, che ha prodotto per lo più pile di documenti. Risolta la contingenza dei primi 2-3 mesi, le aziende sono state costrette a guardare quelle pile e stanno continuando il loro percorso di miglioramento”.
Un miglioramento che passa da una corretta interpretazione della digital transformation, che “non vuol dire soltanto cambiare una piattaforma IT o le applicazioni – tiene a precisare Filisetti in conclusione -. Significa soprattutto cambiare i processi e le organizzazioni, portare innovazione vera nell’Information Technology, perché è l’innovazione che fa la differenza. Se invece continuiamo a dare delle ‘pennellate’ a soluzioni vetuste che conosciamo e che ci lasciano nella nostra comfort zone, le cose non cambieranno mai”. Da qui la raccomandazione finale: “Dobbiamo osare. Imparare a essere un po’ più arditi nell’andare a cercare quello che veramente può cambiare le regole del gioco per le aziende”.