L’IT tradizionale a silos consentiva di concentrare la potenza e i servizi su determinati processi e di correlare i costi informatici a specifiche funzioni, gruppi di lavoro e attività di business. Nel corso degli anni, invece, ha iniziato a rappresentare un ostacolo all’adozione di processi di business in cui diventavano sempre più importanti la condivisione di dati e l’integrazione di applicazioni fino a quel momento utilizzate in maniera compartimentata.
La crescita della digitalizzazione e della consapevolezza, da parte delle aziende, delle necessità di una trasformazione digitale, mette sempre di più a nudo l’inadeguatezza di buona parte delle infrastrutture IT tradizionali a sostenere i nuovi obiettivi di business delle aziende. Queste problematiche, come fa notare un recente position paper di DXC Technology (Enabling the Enterprise Through Hybrid Cloud) si riflettono nell’implementazione, da parte dei dipartimenti IT delle aziende, di un modello di innovazione a due velocità: il primo che consiste nel modernizzare in modo graduale l’infrastruttura e i processi IT per l’utilizzo di paradigmi quali i social, il mobile, il cloud, l’Internet of Things (IoT); il secondo nel fornire in modo più rapido possibile risposte digitalmente evolute a esigenze specifiche degli utenti di business, anche con l’obiettivo di evitare la diffusione dello “Shadow IT” (adottata direttamente dagli utenti).
L’Hybrid Cloud come prevenzione della Shadow IT
Gli esperti di DXC fanno notare come la modernizzazione IT, iniziata già in anni passati al fine di supportare una crescente quantità di processi che hanno l’esigenza di essere supportati in modo digitale, si è configurata, anche nell’IT tradizionale, con il passaggio da grandi stack monolitici, molto affidabili grazie alla loro integrazione intrinseca, con fonti di alimentazioni di dati limitate e interne alle aziende, a stack più piccoli, specializzati, accoppiati in modo libero, in grado di accettare dati da più fonti diverse (spesso esterne alle imprese) e più tolleranti nei confronti di disservizi proprio in quanto loosely coupled.
A livello organizzativo, parallelamente si è visto l’emergere di nuove figure professionali come i data scientist, l’aumento del numero degli sviluppatori necessari a creare nuove applicazioni o modernizzare quelle già esistenti, la crescita di utenti che hanno bisogno di lavorare in modo collaborativo, utilizzando device e applicazioni che avevano già cominciato a usare nella vita privata: dispositivi mobili, social media, servizi di archiviazione in the cloud, e così via.
In una prima fase del cammino delle aziende verso il cloud, come ricordano gli autori del position paper di DXC, si è assistito al già citato fenomeno della Shadow IT e del ricorso (questa volta gestito) ai public cloud, soprattutto per approvvigionarsi di servizi scalabili, flessibili e affidabili di Infrastructure-as-a-Service (IaaS).
Quindi, mentre da una parte l’IT ha iniziato a rispondere al fenomeno dell’IT ombra, proponendo applicazioni Software-as-a-Service (SaaS) e IaaS scelte sui public cloud, dall’altra, la stessa IT ha iniziato a implementare private cloud on-premises o in hosting. Con quale obiettivo? In primis offrire agli utenti (IT e non IT) infrastrutture e applicazione innovative, performanti, elastiche, self-service, affidabili, simili a quelle reperibili dai public cloud.
Un ponte che unisce il meglio di due mondi
Un’altra ragione per l’implementazione delle private cloud, fanno notare da DXC, è che esistono workload che funzionano meglio (o addirittura esclusivamente) in un’architettura di tipo cloud (e non su stack dell’IT tradizionale, che restano comunque adatti a carichi di lavoro legacy), ma che le aziende non possono trasferire al di fuori dell’ambiente on-premises o di un’area geografica bene delimitata, per svariati motivi: l’ottemperanza a normative, problematiche di gestione del licensing di software, analisi costi-benefici da cui risulta più vonveniente l’uso di risorse private e così via).
Ed è qui che entra in gioco l’hybrid cloud, il modello che permette a un’azienda di fruire in modo il più possibile integrato ambienti private e public cloud. Ma si fa in fretta a dire hybrid cloud: un ecosistema di questo tipo si può concepire, progettare, implementare e gestire in modo agile, con minori problemi possibili, con un’esperienza utente coerente, e in piena sicurezza, solo se alla base c’è una architettura che fornisce all’IT un set ricco di funzionalità.
Secondo DXC, il private cloud (on-premises o off-premises) è la componente più critica di un’architettura hybrid cloud, in quanto è qui che i responsabili IT e business devono decidere se mantenere o meno, e come integrare con i public cloud, risorse e applicazioni dell’IT tradizionale. In altre parole, un buon private cloud consente di sfruttare ancora al meglio le applicazioni e le infrastrutture legacy e di migrare sul public cloud i workload per i quali è più adatto questo tipo di delivery. Il private cloud è realmente in grado di offrire un’esperienza analoga a quelle del public cloud, e sviluppatori e responsabili delle operazioni possono realizzare e gestire l’hybrid cloud utilizzando API (application programming interface) software-defined per l’integrazione più rapida e flessibile di servizi, container e microservizi per fornire applicazioni e dati che gli utenti possono scegliere da una vetrina. Una volta, esemplificano gli esperti di DXC, si poteva chiamare private cloud o hybrid cloud un ambiente in cui si riuscivano a fornire sempre più velocemente delle virtual machine (VM): oggi è possibile implementare funzionalità molto più evolute, che allungano la vita degli investimenti già effettuati, consentono di sviluppare in modo sempre più basato su metodologie quali Agile e DevOps, e avvicinare le aziende alle nuove frontiere del mondo digitale.