Mentre le aziende devono fronteggiare nuove richieste da parte dei clienti e forti pressioni di mercato da parte degli outsider, i dipartimenti IT devono riuscire a rispondere con velocità e dinamismo ai cambiamenti. Se in passato le soluzioni IT potevano essere progettate nell’arco di mesi, oggi i sistemi informativi devono essere capaci di lavorare a contatto con le LOB (line of business,) fare prototipi velocemente in modalità agile, disponendo di infrastrutture altrettanto agili nel rispondere alla domanda di velocità, prestazioni e sicurezza. I servizi cloud sono una buona opzione, ma non la panacea, soprattutto se una parte delle applicazioni resta, per motivi d’ordine regolamentare ed economico, nel data center aziendale. Ecco perché è oggi importante l’orchestrazione e il modello hybrid IT per rispondere alle esigenze del prossimo futuro, tema della tavola rotonda Orchestrare l’hybrid IT per accelerare l’innovazione organizzata di recente da ZeroUno in collaborazione con Fujitsu.
Per Massimo Ficagna, Senior advisor degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano la digital transformation comporta il passaggio dell’IT da supporto ai processi interni dell’azienda a elemento di competizione e di supporto alla clientela. “Bisogna essere più veloci nel fare innovazione, trovare e anticipare modelli di business sfruttando tecnologie digitali”. Questo non si può fare con progetti tradizionali. “Occorre provare, andare sul mercato velocemente e raccogliere feedback, perché è difficile sapere a priori cosa funziona – spiega Ficagna -. Nell’incubatore del Politecnico di Milano vediamo che mediamente una startup trova il giusto percorso dopo sette cambiamenti al proprio modello di business”. Insomma nei nuovi business si va per tentativi e aggiustamenti, progetti in modalità Agile che nascono dal contatto tra business e IT. “Per supportare queste modalità di lavoro serve velocità nel provisioning IT, garanzie nelle prestazioni in presenza di utenti esterni il cui numero non è prevedibile come accadeva per quelli interni. L’anno scorso è stato lanciato il gioco Pokemon Go che in due settimane ha conquistato decine di milioni di utenti, poi in pochi mesi il 90% di questi utenti è sparito – precisa Ficagna -. Questo esempio mostra come sia importante la scalabilità dell’infrastruttura per seguire i cicli del business; la sicurezza, per proteggere non solo l’azienda, ma anche i clienti dell’applicazione; la semplicità perché è impossibile avere personale IT in proporzione allo sviluppo di dati e utenti”. Se da una parte la spesa IT delle aziende cresce del 3% secondo Assinform, la spesa per servizi cloud cresce del 18% e integrata con i servizi per l’automazione IT e sistemi convergenti vale oggi in Italia quasi due miliardi di euro. “Sono dati rilevati dal nostro Osservatorio che da sette anni effettua un monitoraggio del mercato cloud – continua Ficagna -. La crescita sale al 24% se si guarda al solo mercato public cloud”. Le aziende insomma stanno usando il cloud per essere più agili sfruttando opzioni sempre più ricche e articolate di Iaas, Saas e Paas. “Il grosso del mercato italiano cloud è consumato dalle grandi aziende; il 43% ha portato su cloud una quota significativa compresa tra il 10 e il 50% di tutte le applicazioni”. Una parte significativa che non acquista servizi cloud sul mercato, utilizza invece il cloud come sistema interno privato per lo sviluppo dei servizi IT per questioni di convenienza o perché obbligate da problematiche d’ordine regolamentare e sicurezza. Il contesto d’impiego del cloud nelle grandi imprese resterà necessariamente misto, soprattutto per quelle che hanno fatto grandi investimenti IT nel recente passato o nelle quali l’IT è parte sostanziale del business.
La chiave di volta è l’orchestrazione dei servizi
“Fare orchestrazione significa disporre di strumenti self service per avviare applicazioni o realizzare con pochi click le macchine e gli storage virtuali di cui ho bisogno – precisa Ficagna -. Significa non dover utilizzare differenti console per gestire contemporaneamente i cloud di diversi fornitori come l’ambiente interno per SDI (software defined infrastructure)”. Il sistema di orchestrazione dialoga con i differenti servizi usando API (application programming interface), supportando logiche di autoscaling. “Posso portare da un cloud all’altro le applicazioni con i template di servizi di cui hanno bisogno. Alcuni sistemi misurano il consumo dei servizi e possono essere usati per fare brokering, scovare la soluzione che costa meno, spegnere le applicazioni che non sono usate, gestire livelli di servizio e policy di sicurezza. Questo è un cammino che si sta cercando di fare per orchestrare i servizi”, conclude Ficagna.
L’hybrid IT a cominciare dall’hardware
Per Carmine Stragapede, Responsabile Vendite per il Data Center Group South Europe di Intel, i cambiamenti che stanno investendo i business aziendali, e di conseguenza, l’IT stanno rivoluzionando l’offerta server, spingendo verso nuovi requisiti per quanto riguarda standardizzazione e integrazione. “Il cambiamento ha impattato Intel al pari dei nostri clienti – spiega il manager –, tra i quali ci sono i grandi fornitori di cloud pubblici. Una nostra previsione dice che entro il 2020, l’85% delle applicazioni d’impresa saranno erogate in cloud. E questo anche nel caso di applicazioni prima impossibili nei campi della visualizzazione 3D, virtual reality, AI. E il nostro lavoro è a contatto con i fornitori di servizi e applicazioni per fare in modo che l’hardware offra le funzionalità più adatte ai nuovi compiti da svolgere”. Tra gli ambiti che Intel segue con più attenzione c’è il supporto alla security, latenza per le applicazioni di Industria 4.0 e IoT. Intel supporta l’approccio hybrid cloud in modo agnostico rispetto a servizi e sistemi di orchestrazione, certificando le soluzioni sul mercato e facilitando l’integrazione con i sistemi interni aziendali. Nella presentazione alla tavola rotonda; Stragapede ha fornito una sintesi delle raccomandazioni frutto dell’esperienza sviluppata da Intel in progetti di cloud ibrido. La società californiana è inoltre impegnata nello sviluppo di SDI (Software Defined Infrastructure) come punto d’arrivo dei sistemi iperconvergenti.
Un cloud a misura d’integrazione
Per Federico Riboldi, Business Program Manager Marketing di Fujitsu Italia, per implementare correttamente logiche di hybrid IT, è importante l’esperienza acquisita in progetti su scala globale insieme con quelli di livello europeo e locale. “Per noi, hybrid IT riguarda insieme le tecnologie on premise e di cloud publico con i servizi di orchestrazione che ne evitano la dicotomia. Abbiamo sviluppato la tecnologia per dare supporto ai processi di trasformazione delle imprese e dell’IT. Tecnologia che permette di andare su cloud ma anche, all’occorrenza, tornare indietro sull’on premise. Servizi basati su skill sviluppati in centri di eccellenza mondiali che si occupano di problematiche di cloud ma anche applicative, di security e altro”. Fujitsu ha reso disponibili in Italia i servizi della propria piattaforma cloud K5 che offre servizi di Iaas e Paas ed è pensata per essere utilizzata come strumento di integrazione tra sistemi esistenti interni aziendali e servizi cloud di differenti fornitori. “Sappiamo che il cloud pubblico non è la soluzione per tutto – precisa Riboldi -, per questo prevediamo che K5 possa girare anche su sistemi Primeflex presso il data center aziendale: sia in forma connessa con il K5 pubblico sia in modo completamente isolato senza perdite di funzionalità”. K5 è basato sullo standard Openstack, si può utilizzare con VMware o integrato con i cloud AWS e Azure. “Può essere quindi usato per il monitoraggio dei servizi già acquistati su altri cloud e ottimizzarne l’uso”, spiega Riboldi. K5 è quindi la base per implementare SDI in azienda ed espandere la potenza elaborativa verso cloud pubblici. Sulla piattaforma Fujitsu ha portato le applicazioni più innovative nell’ambito dell’IoT.
Le curiosità degli utenti
Alla tavola rotonda hanno partecipato utenti di realtà aziendali interessati a capire come le piattaforme hybrid IT possano rispondere alle esigenze di integrazione e sicurezza. Per Sabrina Papetti, IT & help desk manager di Corden Pharma, il cloud è oggi un’opzione di grande interesse per il disaster recovery e il mantenimento della continuità aziendale. “Per noi è fondamentale. Ci occorre per poter ripristinare entro mezz’ora almeno 50 degli 80 server virtuali in cui girano le applicazioni core business”. Francesco Ciuccarelli, CIO di Inpeco, ha già implementato il disaster recovery con Azure, ma non ha trovato facile usare il cloud. “E’ stato difficile garantire i tempi di RTO (recovery time objective) con dati trasferiti sulle infrastrutture di due diversi fornitori: il carrier e il cloud provider. Il calcolo dei costi è stato reso più complicato dall’asimmetria della fatturazione tra dati trasmessi inbound e outbound da parte del cloud provider”. Se da una parte il cloud riduce l’impegno tecnico dell’IT, dall’altro richiede nuove competenze e un diverso atteggiamento dello staff. Per Lucio Gallina, IT regional manager di Bosch, c’è un problema di competenze e di comunicazione: “Serve conoscere bene l’azienda, imparare a comunicare sia con i vertici sia con la periferia, dove spesso l’innovazione si scontra con difficoltà nel comprendere il cambiamento e permangono pratiche arretrate con grande uso della carta”. Daniel Levasseur, ICT director di Boiron, ha introdotto il cloud una decina d’anni fa in occasione di un rinnovo tecnologico. “Abbiamo convinto la dirigenza e quindi ottenuto il massimo livello supporto. La spinta verso il cloud, partita dall’Italia, si è propagata in altre nazioni e ha consentito di adottare modalità di lavoro e approcci procedurali più standardizzati”. Anche per Pierluigi Rossi, head of intranet & physical channels di Unicredit Business Integrated Solutions, il cloud è un’esperienza fatta, ma ancora lontana da un’applicazione su larga scala per problemi di compliance e di sicurezza. “La gestione delle regole e la collocazione dei dati sono per noi molto importanti”, spiega il manager, lamentando nel merito l’insufficiente garanzia fornita dai provider.