Il cloud come polis dove condividere dati, modelli e processi

“Il cloud è progresso, non alternativa del data center”, “miglior marketplace se non, a tendere, il nuovo centro dei processi di impresa”: sono due delle dichiarazioni, rispettivamente di Martin Hingley, Ceo di It Candor, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di sda bocconi, effettuate al recente cloud computing summit 2014, che sottolineano la centralità ormai assurta dal cloud nell’evoluzione stessa
del paese.

Pubblicato il 25 Giu 2014

Il Cloud Computing Summit 2014 organizzato recentemente a Milano da The Innovation Group ha offerto l’opportunità di ascoltare due relatori influenti: Martin Hingley, Ceo di It Candor, società di ricerca con base a Oxford, la cui tesi è stata come il cloud sia “progresso, non alternativa del data center”; Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Economia Aziendale e Strategia d’impresa in Sda Bocconi, che nel cloud vede il “miglior marketplace se non, a tendere, il nuovo centro dei processi di impresa” e, in ottica italiana, un’occasione imperdibile per il loro ripensamento strategico, che prenda le mosse dal valore di spostare i costi da Capex a Opex, ma vada ben oltre, diventando luogo di un’economia di processi condivisi.

Come il Data center evolverà in Cloud Data center
Hingley spiega come il cloud rappresenti un progresso “oltre” il data center computing ricordando le tre fasi che caratterizzano tutt’oggi l’evoluzione del data center: le prime due riguardano Consolidamento (riduzione del numero di data center e di vendor, razionalizzazione dell’hardware server, storage e network) e Virtualizzazione dei server e parallela virtualizzazione dello storage; la terza è l’Integrazione che persegue l’agilità nel business semplificando la scelta delle componenti (e dei loro vendor) e accelerando il dispiegamento con soluzioni preconfigurate dai fornitori Ict.
Ma come sarà “il viaggio del data center”, inoltrandosi oltre l’Integrazione in territorio Cloud? Secondo Hingley questo viaggio seguirà alcune “linee di forza”.
Prima di tutto, effetto della fase “Integrazione” è il Software Defined Data Center in cui le applicazioni e il carico di lavoro sono gestiti nelle virtual machine, l’ipervisore/sistema operativo fa da “isolante” e si fa carico di orchestrare tre “archetipi” di risorse: server, storage e network, con una sorta di “Bring your Own Harware”, che consenta all’It Manager un accesso e utilzzo delle risorse dati indipendente dal vendor fornitore della tecnologia sottostante. Per servire questo scopo l’orchestrazione deve essere riconfigurabile, arricchibile cioè di nuove tipologie di server, storage e network supportati.

Figura 1: Ripartizione del mercato dei servizi Iaas e Paas (27 miliardi di dollari, a sinistra) e dei servizi Saas (41 miliardi di dollari, a destra)

Fonte: Cloud Computing Summit 2014

Ma ci saranno altri elementi di peso: l’attrazione al cloud che viene dal “diluvio” di dati che big data analytics e Internet of Things “rovesciano” sull’impresa; gli hyperscale web supplier, come Google e Amazon, che, come dice Hingley “godono di un chiaro vantaggio di posizione e stanno sottraendo importante business ai principali vendor, con soluzioni economicamente più vantaggiose e capacità di scala di massa concentrata su un numero ridotto di app”; infine, i Managed Service Provider, che si riposizionano verso uno stile di offerta di outsourcing che si muta in proposte cloud.
In conclusione, dice Hingley “ci saranno in futuro meno data center, più specializzati e molto più grandi. E servirà riorganizzare gli skill per mescolare e raffrontare dati esterni con dati interni all’azienda. Serviranno meno data center manager e molti più ‘data steward’ [nel senso proprio di amministratore, assistente, quindi con competenze gestionali sicuramente minori di un data center manager – ndr], per dominare i problemi di integrità e sicurezza attorno alle sorgenti di dati più disparate”.
It Candor valuta il business cloud attuale a 1,1 trilioni di dollari e prevede che entro il 2018 arriverà a 1,7 trilioni di dollari, a fronte di un business “tradizionale” Itc stazionario sui 5,5 trilioni di dollari. Della torta 2013, la parte del leone la fanno i servizi (45% It e 31% telecom); software e hardware si dividono il resto con un 12% a testa. Nella spartizione del business cloud è assai significativa la leadership dei Consumatori (50,2%) e dello Small Business (27,6%), contro il 10,1% del Medium Business e il 12% del Large Bussiness.
Come si vede in figura 1 il consolidamento dei fornitori di servizi cloud è ancora molto lontano: ben il 63% dei servizi Iaas e Paas e il 78% di quelli Saas è fornito da una pletora di operatori.

Imprese, industrie e mercati si ritrovano sul cloud

Martin Hingley, Ceo di It Candor

“Al di là delle infrastrutture (cloud pubblico, privato, ibrido), il cloud è per natura ibrido nel senso di commistione di pubblico e privato: è una ‘città’ che esprime il proprio potenziale solo se gli abitanti accettano lo stato di ‘polis’, cioè la condivisione”, dice Carnevale Maffè, che prosegue: “Il sogno è quello kantiano di legge universale che vede il cloud come istituzione economica, luogo di ridefinizione dei concetti di scambio del lavoro e dei capitali, secondo regole di convivenza o protocolli (per esempio il protocollo Ip) che da norme proposte diventano leggi universali. Rendendo il cloud luogo di governance, trasparenza e accountability, per un mondo più fluido, interconnesso e veloce”.
Cloud dunque, anche etimologicamente, come Topos (luogo) dove quella da vincere è la sfida organizzativa, ben superiore di quella tecnica (virtualizzare l’hardware). “La sfida – prosegue Carnevale Maffè – è per il sistema Paese: imprese, settori, istituzioni e mercati. Obiettivo è l’incontro e la convergenza per tutti nel cloud-città, crocevia naturale di processi e interessi economici, e pertanto luogo dove trovare le risorse necessarie a un costo sociale vincente sul costo privato. È un nuovo luogo, dove il dato non solo transita, ma è contaminato, arricchito, accumulato in memoria; in cui i processi economici portano con sé esternalità positive producendo un valore sociale superiore a quello privato per il quale sono stati disegnati: dati e processi che ‘restituiscono’ più di quello che produrrebbero se non fossero messi in cloud”.
Esternalità positiva? Costo e valore sociali? Carnevale Maffè li illustra graficamente. Lato offerta, l’esternalità positiva in cloud è l’effetto di scala con cui si offre di più a un prezzo più basso, o addirittura sussidiario. Lato domanda, c’è l’effetto tribù, l’amico che è in cloud e che mi ci attrae, effetto che produce un pubblico potenziale maggiore.

Ridefinire il modello di business

Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Economia Aziendale e Strategia d’impresa in Sda Bocconi

La sfida, nel cloud, è “azzeccare il modello di business”, riconosce Carnevale Maffè, che dà un suo contributo di economista: scrive alla lavagna V*P < M*S (V sono i Volumi, P i Prezzi, M le Membership, S le Sottoscrizioni). È una disequazione tra servizi cloud e non cloud che il docente di Sda Bocconi spiega così: “Nel cloud non ci sono transazioni, (quantificabili come V*P), ma appartenenze (Membership). E Sottoscrizioni di un’app. Dato che i costi marginali di produzione del dato utile vendibile in cloud scende verso lo zero, non ha senso economico applicare costi a volume: prima o poi spunterà sicuramente qualcuno che applica un costo minore a un volume maggiore avvicinandosi maggiormente a costo 0 e volume infinito, facendoci perdere la partita”. Ha senso invece chiedere la “tassa di cittadinanza” e puntare a sottoscrizioni di un’app, con un forecast basato su M*S. Il modello reggerà se nel cloud si riesce a far sì che abbastanza Membri sottoscrivano la propria adesione alla nuvola in modo da superare il V*P ottenibile in contesto non cloud.
Scontato che il baricentro di un’organizzazione moderna si sposta ormai ai suoi bordi, dove ci sono funzioni di scambio e massima ibridazione, Carnevale Maffè vede in cloud se non il core business, il core point dei processi d’impresa: di certo il miglior marketplace. Il cloud diventa il luogo di riduzione delle asimmetrie organizzative consentendo agli imprenditori di assumere risorse organizzative molto più flessibili. Il bicchiere mezzo vuoto dice però anche che la condivisione in cloud riduce lo spazio per le imprese di accaparrarsi una quota del valore; le imprese rischiano di perdere il controllo dei processi di valore aggiunto.

Il cloud per il Sistema Paese
Dall’ordinario di strategia aziendale della Sda Bocconi viene un vero e proprio appello a un Risorgimento economico: “O rifacciamo questo Paese sul cloud, come occasione irripetibile di ricostruzione per riscrivere la Costituzione economica della nazione, o si muore”. Costituzione economica della nazione che, “beninteso – specifica subito Carnevale Maffè – non esiste: manca uno standard di rispetto del lavoro delle imprese e dei cittadini, tema ben più cruciale di elasticità, virtualizzazione o Tco”. Concretamente, l’appello di Carnevale Maffè è di far pressione sul Governo perché “i tagli della spending review li faccia cancellando ogni nuovo computer da mettere in Pa, smettendo di investire nell’automatizzarla, ma invece prenda i processi amministrativi istituzionali e li porti in cloud”. Perché i Governi hanno investito sì, ma nel capitale sbagliato, lamenta Carnevale Maffè: confrontando gli investimenti dei maggiori paesi industrializzati con quelli italiani, risulta che ci siamo focalizzati su capitale tecnico-industriale (torni, frese) più di tutti e invece “non abbiamo incentivato gli investimenti non tanto in Ict (per fortuna il Capex con il cloud perde molta della sua importanza), ma in skill Ict. L’Ict capital che ora ci manca sono migliaia di teste capaci di high skill labor, che nella fattispecie ripensino il business con processi a baricentro cloud”, conclude Carnevale Maffè.

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