Washington University, (Seattle, Wa), 4 marzo – Svolta epocale in diretta, non c’è dubbio. Sale sul palco Steve Ballmer, Ceo di Microsoft. L’esordio è che “sulla trasformazione al cloud Microsoft sta scommettendo i suoi 58 miliardi di dollari [il fatturato dell’azienda di Redmond, ndr] ma sono certo che lo stesso fa, con i suoi 3,3 trilioni di dollari, l’industria It nel suo insieme”. E arriva anche il parallelo col 1995, l’epoca del salto di Bill Gates verso Internet, quando Windows95 ha avuto il primo browser “built-in” e l’intera organizzazione Microsoft si è girata tutta, rapidamente per recuperare un iniziale errore di sottovalutazione, verso la Rete, tempo sei mesi. E che adesso stia girandosi verso il cloud lo dicono altre parole del Ceo: “il 75% dei 40.000 sviluppatori Microsoft sta lavorando su sviluppi che, in tutto o in parte, sono per il cloud. E lo saranno al 90% in due anni”.
Steve Ballmer ha volato alto, come si conviene al livello dell’annuncio e del personaggio elencando cinque “principî, o dimensioni chiave del cloud, su cui concentrare le migliori idee di innovazione commerciale, accademica, tecnologica”. Sono principî di indubbio valore generale, anche se, specie nel 5° principio, traspare l’approccio strategico al cloud basato su Windows, che Gartner chiama di “continuum tra server e servizio” (vedi articolo nella pagina a fianco). E per inseguire la mutazione profonda verso il servizio che il cloud impone all’industria It, in ambiente per definizione eterogeneo, c’è la riscoperta del valore della Interoperabilità come “nuova normalità” tutta Microsoft (vedi articolo "Microsoft e l'interoperabilità Cloud".
I cinque principî di Ballmer
Primo. Il cloud crea opportunità e responsabilità. Allusione a nuovi modelli di business e iniziative che diventano possibili con il cloud. Un “creativo”, anche da solo, in ogni parte del mondo potrà creare all’istante un contenuto con servizio a consumo (citata Appstore) o sfruttare un servizio finanziato da pubblicità. C’è poi la responsabilità di proteggere privacy, anonimato e confidenzialità dell’utente, con tutta una serie di problemi sociali e tecnici da controllare e risolvere. L’auspicio di Ballmer “grazie anche a una sana concorrenza” è di una “infrastruttura commerciale potenziata dalla nuova efficienza cloud, ma rispettosa del consumatore, con scelte tecnologiche che consentano all’utente il controllo ultimo”.
Secondo. Il cloud impara e aiuta ad imparare, decidere e agire. In più di Internet, in fondo capace solo di far eseguire search su un mondo virtuale di 83 milioni di siti, il cloud avrà la capacità di “machine learning”: di imparare dai trilioni di search effettuati sul pianeta, dalle migliaia di search che ha fatto il singolo utente e/o dalle sue varie forme di comunicazione. E di derivarne gli intenti, giungendo a conclusioni probabilistiche, utili a suggerire decisioni e azioni. Magari inferendo dai comportamenti precedenti che, se uno scrive “fiori”, la maggior probabilità è che ne vuole comprare un mazzo di un certo tipo e magari al miglior prezzo. Cloud grande fratello, insomma, con business intelligence da “concierge”. Un esempio di come il cloud impari è stato dato con Bing Maps che per una data località integra mappe stradali, con viste aeree, con viste dalle strada e con viste e foto di interni. E si arricchisce inserendo opportunamente ogni nuovo oggetto informatico che gli si dà in pasto. Naturalmente la raccolta di immagini è solo un esempio di una varietà di acquisizioni semantiche multidimensionali che si possono far apprendere al cloud. Ogni sorta di informazione può venir collegata; il cloud impara in una varietà di modi da contenuti e da utenti. È cruciale, naturalmente, l’abilità del programmatore.
Terzo. Il cloud potenzia le interazioni sociali e professionali. Naturalmente, vi si combinano e-mail, social network, gestione calendario: il cloud finisce con essere il crogiolo che ci fa relazionare con chi, come e dove vogliamo, direttamente o in un contesto (progetto, gioco). Il cloud spingerà il modo di connettersi con profili personali o professionali finché “l’interazione virtuale multimediale, sicura e riservata, finirà con l’equivalere all’interazione fisica.” La collaborazione virtuale nel business è poi “il mainstream dello sviluppo per Microsoft”, con il suo Dna derivante da applicazioni Office, alla fine tutte orientate a una sola cosa: “esprimersi, interagire, collaborare”.
Quarto. Il cloud vuole dispositivi più intelligenti. I dispositivi di accesso (pc, telefono, televisione, sensori) conteranno sempre più perché influenzano il modo con cui il cloud può raccogliere dati e imparare, da voce, espressioni, gestualità. Conta la capacità del dispositivo di stabilire il contatto con l’utente, di fornire un’interfaccia ricca, recuperare dati dai sensori che migliorino l’esperienza dell’utente. Il dispositivo ideale per interagire con il cloud è un’unica unità che coniuga il meglio di un browser con un’interfaccia ricca e interfacce naturali (audio, video). Come i Pc non sono più quelli di cinque anni fa, i telefoni stanno diventando diversi e molto intelligenti, il che non significa complessi e costosi. Il cloud faciliterà semplicità e basso costo allo stesso tempo. Preannuncio di una nuova serie di telefoni Windows 7, concepiti e disegnati per il cloud con tecnologie di interfacce naturali.
Quinto. Il cloud innesca innovazione nei server che innescano innovazione nel cloud. Il cloud nasce come un pool di server virtualizzati. Qualcosa come due milioni di server sul pianeta costituiscono i vari cloud pubblici. Ma l’hardware e il software di un server vanno ripensati in ottica cloud, il che introduce a livello di data center problemi mastodontici di scala per numero di server, dati immagazzinati, volatilità del carico di punta in funzione per esempio di geografie (va sempre garantito il rapido dispiegamento on demand di istanze di macchine virtuali). E cambia il modo con cui vanno disegnate le applicazioni perché performino nel cloud: l’ambiente cloud impone “innovazione” nel disegno del codice e negli strumenti di sviluppo e di management. “L’obiettivo – dice Ballmer – non è buttar via il software esistente, ma migrarlo verso il cloud e capitalizzare sugli skill che si hanno”. E tutto ciò vale sia per i cloud pubblici sia per quelli privati.