Nel 2022, il multicloud e l’hybrid cloud hanno trainato il mercato della “nuvola” in Italia. A fronte di un valore complessivo pari a 4,56 miliardi di euro, infatti, i segmenti public e hybrid cloud si sono attestati su una spesa di 2,95 miliardi di euro, in crescita del +22% sul 2021. Questi dati, che si ricavano dalle ultime rilevazioni dell’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano, trovano conferma nell’esperienza di quelle realtà che oggi si pongono al fianco delle aziende lungo i loro percorsi di innovazione e di modernizzazione sia infrastrutturale, sia applicativa.
Percorsi che non si possono standardizzare, ma che implicano una progettazione sempre più “tailored” per venire incontro alle esigenze diverse di ciascuna organizzazione. “Alcune aziende vogliono evolvere da un on-prem verso un private cloud perché nel loro stack evolutivo il cloud è un paradigma tecnologico a cui desiderano avvicinarsi step by step” sottolinea Salvatore Ferraro, Head of Presales Office di WESTPOLE, introducendo un concetto in cui la scelta del private o del public cloud non dipende esclusivamente da criteri insiti nel tipo di impresa, come spesso si tende a pensare.
“Ci sono clienti che hanno la necessità non tanto di voler riservare in maniera segregata le informazioni, quanto di essere sicure delle performance della parte infrastrutturale e, di conseguenza, che il livello di CPU sia a totale appannaggio del loro stack applicativo” aggiunge.
Partire dalle differenze tra public e private cloud
La preferenza per il public o il private cloud, o per entrambi con un approccio multicloud, deve essere dettata dalla piena consapevolezza delle caratteristiche dell’uno o dell’altro. Un solution provider come WESTPOLE, a differenza del classico service provider, serve anche a questo: a indirizzare le aziende verso ciò che davvero fa al caso loro, partendo dalle peculiarità che distinguono il cloud pubblico da quello privato.
“Tutto ciò che è public è best effort per definizione” dice Ferraro, ricordando che la disponibilità delle risorse, ad esempio, non sempre garantisce che un’applicazione possa essere instradata tramite un data center situato sul territorio italiano. “Talvolta le aziende hanno l’interesse a mantenere i dati in Italia per una questione di riservatezza e/o di GDPR compliance. La Pubblica Amministrazione non a caso chiede che il data center sia AgID compliant per rispettare determinate policy di sicurezza, tra cui la segregazione dei dati all’interno dei confini nazionali”.
Questo è uno dei motivi che può spingere all’adozione di un private cloud, oltre a quello anticipato prima di avere una garanzia sulle performance della propria parte infrastrutturale su cui poggia lo stack applicativo. Nell’ottica del public cloud, invece, il cliente è orientato a fare “cherry picking”, a selezionare cioè il selezionare il best of breed nel portafoglio di offerta di un hyperscaler come AWS, Google Cloud o Microsoft Azure.
Soluzioni a progetto o soluzioni a catalogo?
Policy di sicurezza, garanzia della potenza computazionale, latenza: sono questi i fattori da considerare quando ci si orienta tra public e private cloud. Nulla vieta a un’azienda di poter avere una grossa porzione dei suoi workload su una parte privata e di andare a prendere degli elementi d’offerta all’esterno, come ad esempio un backup geografico per garantire ridondanza della soluzione globale anche a livello infrastrutturale.
In pratica, nel public l’offerta a catalogo prevede una serie di servizi standardizzati, nel private l’offerta la si crea su alcuni bisogni specifici, fermo restando che ci possano essere dei requisiti di compliance o degli SLA specifici che “obbligano” a propendere per l’uno o per l’altro. La questione dirimente però, a parere di Salvatore Ferraro, non è legata semplicemente al fatto che bisogna segregare i dati in Italia o garantire prestazioni di un certo tipo, quanto nella capacità del cliente di sapersi immaginare una soluzione a progetto piuttosto che a catalogo.
“Per questo, in WESTPOLE siamo agnostici e guardiamo alla parte pubblica alla stessa stregua di quella privata. Accompagniamo il nostro partner, che nella maggior parte dei casi è una software house, verso la soluzione migliore. Quando facciamo reengineering con questa tipologia di azienda, il partenariato è win-win, perché la reingegnerizzazione del suo ambiente ad esempio in chiave Kubernetes, consente di implementare una soluzione fatta su misura per il cliente finale” spiega.
La “via di mezzo”
A metà strada fra il puro private cloud, che significa mettere a disposizione del cliente un server virtualizzato dedicato, e un public cloud in cui la modalità condivisa non è sempre in grado di fornire garanzie di performance al 100%, si pone la proposta “ibrida” che poggia su 3 elementi cardine: tecnologia, consulenza e management. Esemplificando in cosa consista questa sorta di via di mezzo tra pubblico e privato, l’Head of Presales Office di WESTPOLE entra nel dettaglio: “Sulla nostra piattaforma cloud Wespace siamo in grado di fornire ai nostri clienti ambienti IT con livelli di virtualizzazione più o meno spinta da una modalità best effort sino a quella riservata in base alla capacità computazionale richiesta dall’applicativo e, in ogni caso, laddove le performance dovessero degradare, si può ordinare della CPU aggiuntiva così da rivedere il proprio stack a livello infrastrutturale”.
A tal proposito, WESTPOLE recentemente ha anche introdotto il modello pay-per-use, cioè il pagamento a consumo, che ha aggiunto al modello del canone già presente nella sua offerta. In questo modo, l’azienda cliente adesso ha l’opportunità, nei momenti di picco, di poter attivare delle virtual CPU, che può spegnere quando non ne ha più bisogno. In realtà, questo nuovo modello di pagamento fa parte di una trasformazione profonda di WESTPOLE che ha deciso di fare proprie le evoluzioni del mercato che tendono verso ecosistemi in cui l’ambiente cloud è sempre meno monolitico e sempre più dinamico. Ibrido e multicloud, appunto.