Dicembre è da sempre un momento di bilanci sull’anno che sta per chiudersi (e di tante fallaci promesse per l’anno che sta per iniziare). Se penso al 2020, l’immagine che si è cristallizzata nella mia mente è quella di un grande frullatore dove l’intera umanità è entrata a febbraio: all’inizio dell’estate il frullatore si è fermato per controllare la situazione, ma poi a novembre ha ripreso a girare vorticosamente, adesso sta rallentando ma il timore è che ancora non sia finita; la paura è che riprenda a girare e che la nuova miscela (la cosiddetta “nuova normalità”) non sia ancora pronta per essere finalmente liberata.
Continuando con questa metafora, quali saranno i “sapori” di questa nuova miscela?
Il più forte sarà quello acre della morte: difficilmente potremo dimenticare le scioccanti immagini dei camion dell’esercito a Bergamo o la cifra, al momento in cui scrivo, di oltre 1 milione e 600mila morti nel mondo a causa della pandemia. Sicuramente ci sarà il delicato sapore della solidarietà, un sapore che evapora in fretta se non è continuamente alimentato. E non potrà mancare quello aspro della consapevolezza della caducità delle nostre certezze che si affiancherà a quello pungente della fatica, la fatica non solo fisica ma anche psicologica di medici, infermieri e di tutte le persone che in questi mesi hanno superato la barriera del possibile pur di curarci. Non vorremmo sentirli, ma emergeranno anche quello insulso dei tanti comportamenti irresponsabili di chi, per ignoranza o indifferenza se non per ottusa colpevolezza, ha contribuito a peggiorare la situazione o quello nauseabondo di chi ha approfittato della pandemia per spargere odio o speculare con ignobili traffici. E rimarrà quello saporito di nuove esperienze: “rinchiusi” abbiamo dovuto imparare a convivere con le nostre solitudini, ma anche a vivere i rapporti con gli altri in modo diverso; abbiamo scoperto un nuovo modo di lavorare; abbiamo toccato con mano la vera utilità della tecnologia diventata indispensabile per rimanere connessi con il mondo, con gli amici, i familiari, il lavoro. Si sentirà quello frizzante della scoperta di essere capaci di contrastare una delle più comuni caratteristiche dell’essere umano: la resistenza al cambiamento.
La propensione al cambiamento è quindi il tema sul quale voglio incentrare questo editoriale, partendo dai dati dell’Osservatorio Assochange sul Change Management 2020 realizzato in collaborazione con gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.
L’impatto della pandemia sul nostro modo di gestire il cambiamento
Ed è proprio alla domanda “qual è stato l’impatto della pandemia sul nostro modo di gestire il cambiamento?” che Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice, ha cercato di rispondere commentando i dati della ricerca.
Il primo dato interessante che emerge è che, contrariamente a quanto è accaduto per progetti di innovazione in ambito tecnologico/infrastrutturale dove si è registrato un rallentamento (come ha evidenziato l’ultima analisi dell’Osservatorio Cloud Transformation), la pandemia ha accelerato alcuni ambiti di cambiamento, modificando però le priorità dei progetti in corso (figura 1). Ma gli spunti più interessanti si colgono dall’analisi dei dati relativi agli ambiti sui quali c’è stata un’accelerazione: per la prima volta la voce Tecnologia e Digitalizzazione è balzata al primo posto mentre Struttura organizzativa & Modelli di organizzazione del lavoro, che è sempre stata al 1° posto, è scalata al 2°; un trend ancora più accentuato se si analizzano i dati relativi al periodo dell’emergenza e alle previsioni per i prossimi 12 mesi (l’analisi è stata suddivisa in tre periodi, come si vede in figura 2, per capire bene l’impatto dell’emergenza). Altro impatto destinato a perdurare nel tempo è quello sui Processi di lavoro segnalato dal 22% delle aziende pre-pandemia, è passato al 39% nel periodo di emergenza, per rimanere a una percentuale interessante (31%) nei prossimi 12 mesi.
Una percentuale non piccola dei progetti di change management però fallisce: un progetto su 3 non supera nemmeno il 50% degli obiettivi prefissati e solo l’8% supera l’80% degli obiettivi.
La figura 3 evidenzia i fattori critici di successo e di fallimento. Due grandi fattori che, se presenti, facilitano il successo di un progetto sono sicuramente la sponsorship del top management e il coinvolgimento delle persone coinvolte; i fattori che invece spiegano le ragioni del fallimento non sono tanto relativi alla specificità di ogni singolo progetto bensì di carattere più generale, relativi all’azienda nel suo insieme come l’assenza di una cultura inclusiva e aperta al cambiamento e la rigidità della struttura organizzativa. Per quanto riguarda gli ambiti da tenere in considerazione in futuro emerge chiaramente (per il 62% delle aziende intervistate) l’Engagement delle persone coinvolte.
A questo punto diventa fondamentale capire quali azioni vengono intraprese dalle aziende per motivare e coinvolgere le persone nel cambiamento: l’azione di gran lunga più importante (figura 4) è legata all’organizzazione stessa del lavoro e riguarda la capacità di rendere le persone autonome e responsabili dei risultati. Un fattore rilevante dato che, come sottolinea Corso, è il principio chiave dell’adozione strategica di modelli di smart working.
Le altre azioni testimoniano una grande attenzione a quella che si sta rivelando una pesante criticità del momento, ossia la difficoltà a condividere esperienze ma anche a mantenere relazioni informali in contesti esclusivamente digitali, quindi focus su trasparenza e comunicazione, modalità virtuali di allineamento sulle attività operative o di momenti di condivisione non strettamente legati alle attività lavorative.
La leadership della nuova normalità
Un altro dato molto interessante emerso dalla ricerca e nel quale si sente quel sapore frizzante di cui parlavo all’inizio, è quello relativo a come le persone vivono il cambiamento: negli anni scorsi il 60% delle aziende rilevava come prevalente un atteggiamento passivo o di resistenza al cambiamento invece la rilevazione di quest’anno porta a una sorta di ribaltamento di queste percentuali, con il 59% che dichiara che le persone partecipano con disponibilità e spirito costruttivo, “addirittura – ha detto Corso – sono esse stesse che lo promuovono in modo proattivo e questo è un aspetto molto interessante”. Fa il paio con questo dato quello relativo alla consapevolezza dell’importanza del cambiamento: nel 2019, 1 su 4 aveva la percezione dell’urgenza del change, nel 2020 il rapporto è di 1 su 3. “Un risultato che si spiega con il fatto che la pandemia ha portato le persone fuori dalla propria area di comfort”, ha detto Corso.
La ricerca di Assochange non poteva non cercare di capire quali sono le caratteristiche che dovrà avere la leadership che guiderà le aziende nella nuova normalità.
Quello che emerge dalla ricerca (figura 5) è che se in passato la caratteristica principale era il pragmatismo, la capacità decisionale di execution, questo non basterà più al leader del futuro, il suo profilo dovrà essere diverso: la capacità di infondere entusiasmo sarà un fattore importantissimo, così come la capacità di delega insieme all’orientamento all’innovazione. “Sono queste le doti chiave per non perdere quella che possiamo definire una occasione storica: molti elementi di resistenza al cambiamento in questo momento storico stanno venendo meno e allora è importantissimo che il leader sappia cogliere questo momento per condurre la sua organizzazione in una fase cruciale, definitoria di quelli che saranno i rapporti di forza, gli elementi di competitività del futuro. Un leader che sappia sfruttare questa nuova propensione delle persone, sapendo che se da una parte sono più consapevoli e aperte al cambiamento dall’altra vogliono essere chiamate ad essere parte del cambiamento stesso a contribuire in prima persona a scrivere il loro futuro piuttosto che subirlo”, ha concluso Corso.
Mentre scrivevo questo editoriale mi è capitata sott’occhio una recensione dell’ultimo libro di Alessandro Rimassa (co-fondatore di Talent Garden, imprenditore, scrittore…) Company culture. Il sistema operativo che fa crescere le aziende: mi sembra che si sposi perfettamente con quanto emerso dalla ricerca e quindi metto la sua lettura tra i miei buoni (e spero non fallaci) propositi per il 2021.
Concludo qui il mio editoriale e ripeto, come ho scritto in “The Great Reset” all’insegna della sostenibilità, che tutti noi dobbiamo fare la nostra parte in modo che una delle poche eredità positive di questo orrendo 2020 non venga sprecata. A noi il dovere di esaltare i sapori delicati, saporiti e frizzanti della nuova normalità, mantenendo l’aspro come monito, e lasciare che quelli acri, pungenti, insulsi e nauseabondi non siano dimenticati, ma rimangano solo come un fastidioso retrogusto.
Tanti auguri a tutti per un Natale sereno e un 2021 frizzante e saporito.