Si prende atto, insomma, che i costi da sostenere sono eccessivi, intollerabili. E prima ancora di costi economici, immensi, parliamo di costi umani: disoccupazione, infelicità, disperazione (ricordiamoci la tragedia di pochi giorni fa a Lampedusa) alla ricerca di equilibri che in realtà il nostro modello sociale ed economico non riesce più a garantire. Insomma il tema di come impostare un futuro diverso, per noi e per le future generazioni, comincia ad essere drammaticamente “sul tavolo”. Come sviluppare allora un nuovo modello economico, dopo il fallimento dell’utopia comunista e l’illusione capitalista con la sua degenerazione finanziario-speculativa, che metta al centro l’individuo e i suoi bisogni, i suoi ritmi, i suoi….sogni?
La politica, quella alta, strettamente intrecciata all’evoluzione economica e sociale globale, ripensa oggi, tra mille difficoltà, compromessi, freni, interessi, un modello di sviluppo che non può più essere sostenuto.
Un modello che ha prodotto, nella sua degenerazione, un’esaltazione del futile, dell’individuale e del personale a scapito della partecipazione e della condivisione; una felicità effimera misurata sulla ricerca, talvolta insostenibile ma ferocemente desiderata, di consumo; un crollo di eticità e di pensiero. Un darwinismo sociale che nella sopraffazione (sfruttamento e controllo) del debole da parte del più forte (economicamente e socialmente parlando), dell’individualismo conservatore a scapito del supporto a chi non ce la fa, ha affinato il proprio modello di riferimento.
Non ce la possiamo fare continuando come abbiamo fatto fin qui. Sono in tanti, e non gruppuscoli ecologisti o nostalgici del passato, bensì i più autorevoli enti di controllo politico ed economico internazionale, a pensare a come destrutturare una complessa macchina di accumulo di ricchezza e di potere che non può più funzionare secondo le vecchie regole. Serve con urgenza trovare nuovi metodi di creazione di benessere (sullo sfondo, però, sempre ricchezza e potere saranno difficili da cancellare) che non siano così distruttivi degli equilibri ambientali e soprattutto non solo a protezione degli interessi di pochi. La richiesta pressante è ormai quella di saper dare risposte ai bisogni di un numero sempre maggiore di persone.
Insomma: in un quadro che sarebbe fin troppo facile confermare nel dettaglio con cifre che testimoniano l’ormai insopportabile tasso di inquinamento, disoccupazione, emigrazione, povertà e violenza del nostro pianeta, cerchiamo di interrogarci su cosa l’informatica potrebbe fare per invertire questo decadentismo.
Lasciamo da parte la pervasività dell’innovazione tecnologica e informatica nelle diverse discipline (dalla medicina alla meteorologia, dalla prevenzione ambientale alla genetica e molto altro ancora). Guardiamo a noi stessi. Guardiamo ai nostri Cio e alle nostre imprese, spasmodicamente orientate al business e all’accumulo di capitale per gli azionisti. Un’informatica che prima ancora di essere strumento infrastrutturale di efficienza diventa “braccio armato” di un modello economico che sta mostrando tutti i suoi limiti. Proviamo allora ad addentrarci in una riflessione differente, quella di un’informatica solidale, che accanto alla sua “declinazione economica” possa supportare, accelerare uno sviluppo globale migliore, di responsabilità sociale.
Ultimamente, con le nostre provinciali vicissitudini politiche, abbiamo un po’ perso di vista i punti forti dello sviluppo di un paese, ormai arretrato, come l’Italia. Ma noi non ci arrendiamo. Ci crediamo ancora. Crediamo, ad esempio, che l’Agenda Digitale possa finalmente trasformarsi in un quadro normativo, tecnologico e progettuale che dia finalmente impulso al Paese. Per fare cosa? Allinearsi semplicemente a modelli produttivi e competitivi internazionali? Certo questo appare ancora oggi inevitabile (e necessariamente auspicabile); tuttavia abbiamo un’occasione immensa, da non sprecare: innervare di tecnologie digitali la società (scuole, ospedali, amministrazioni locali, infrastrutture, ricerca, città, ambiente) non soltanto per creare efficienza e risparmio, ma per poter disegnare soluzioni informative che facilitino la vita, che aiutino le persone, proteggano l’ambiente, snelliscano le procedure, che ci colleghino sempre meglio tra di noi e che possano generare, attraverso questa condivisione diffusa, nuove idee e nuovi sviluppi a partire dal basso, dall’esigenza sociale. Insomma, una vera e propria rivoluzione, o cyberdemocrazia, i cui prodromi abbiamo visto con lo sviluppo dei social network di questi anni, con Internet che ha reso “flat” il pianeta e che ha aumentato nelle persone, quelle scarsamente rappresentate da un universo politico distante, la consapevolezza di sé e di essere massa critica per generare cambiamento. Ma siamo solo all’inizio. E i Cio? E le imprese? Che cosa hanno da dire in questo quadro di generale trasformazione e di dibattito sociale ed economico?
Lasciateci “gonfiare il petto”. Sono almeno un paio di anni che ZeroUno, insieme agli amici di Finaki e NetConsulting, sta portando all’attenzione di interlocutori politici ed istituzionali “l’impegno dei Cio”. In altri termini, si sta portando avanti un’idea “politica”, promulgata anche da tanti altri soggetti impegnati in Italia in questa proposta, basata sulla necessità di un impegno più concreto delle aziende nella realizzazione dell’Agenda Digitale. Proprio nei prossimi giorni avremo a Roma un confronto con alcuni esponenti del mondo politico ed istituzionale, insieme ad alcuni Cio e ai vendor che hanno deciso di essere con noi in quest’opera di sensibilizzazione. Si vuole, in breve, passare dalla lamentazione di un quadro digitale italiano alquanto deprimente (per innovazione ed efficienza, salvo alcune eccezioni), sia sul territorio sia nella pubblica amministrazione soprattutto centrale, ad una proposta di impegno nella costruzione dell’Agenda digitale. Come? Sensibilizzando le controparti ad ascoltare quanto le aziende, in termini di modelli, processi, scelte tecnologiche e competenze, hanno sviluppato in decenni di esperienza che non va cancellata, per mettere questo patrimonio a disposizione di uno sviluppo digitale italiano, ormai inevitabile. E allora, per esempio, perché non usare modelli organizzativi e formativi di grandi imprese italiane per mutuarli all’interno dei processi formativi della scuola (per alunni ma prima ancora per gli stessi insegnanti)? Perché non applicare la razionalizzazione e la flessibilità nell’utilizzo di servizi It (private cloud) a realtà pubbliche arretrate? Perché non trasferire sul territorio modelli di screening sanitario diffuso mutuando tecnologie, ma soprattutto processi consolidati, da grandi imprese che nella gestione di migliaia di propri dipendenti hanno da anni adottato modelli di prevenzione sanitaria efficiente? E ancora: quali benefici potrebbero ricavare i trasporti, il turismo, l’ambiente, l’inclusione sociale, l’assistenza, da una “contaminazione” di modelli e di tecnologie dal mondo delle imprese?
È di questa disponibilità, di questo patrimonio, che parliamo; e che sarà possibile usufruire se chi avrà le redini dell’Agenda Digitale non vorrà “reinventarsi l’acqua calda” ma saprà mettere a frutto esperienze e tecnologie collaudate nello spietato mondo del business (immaginatevi i patrimoni di modelli organizzativi, competenze e soluzioni tecnologiche di “hub aziendali” radicati nei territori quali Fiat, Eni, Intesa SanPaolo, Telecom, Autostrade, Enel, Ferrovie dello Stato, ecc.). Ma attenzione, il valore starà proprio nell’obiettivo finale: non solo il risparmio e l’efficienza per rendere il Paese più competitivo, ma anche un’azione prioritaria di riequilibrio sociale, ambientale, con il criterio economico subalterno ad una priorità di benessere individuale e di Paese. Un giorno qualcuno ha detto “I have a dream”. Finché non sapremo sognare, saremo sempre alla rincorsa di un profitto che in fondo non ci ha dato quello che cerchiamo: il miraggio di una felicità che l’informatica, quella buona, può aiutarci a trovare. Perché non spingere tutti per qualcosa di nuovo e di migliore?