…E il fatto che l’evoluzione tecnologica sia così rapida e continua, permetterà a molti di poter dire: “io c’ero”. Dove? A vedere e a vivere cosa? La radicale trasformazione dell’attuale informatica, da passiva e orientata ad un’esecuzione attraverso linguaggi e comandi complessi, ad un modello intelligente, autonomo, in grado di apprendere, migliorarsi di continuo e di relazionarsi in forme semplici, da pari con la persona, nel suo stesso linguaggio evoluto: l’era dell’Intelligenza Artificiale.
Non stiamo parlando di una nuova fase di evoluzione tecnologica lineare, così come avvenuta negli scorsi decenni, ma del punto di maturazione e convergenza funzionale di tecnologie hardware, software e di rete, che consentono l’uso di una intelligenza, artificiale, anch’essa in una nuova fase di maturazione e applicabilità, destinata a cambiare alla base, meccanismi e modelli sociali (con nuove forme di lavoro, nuove professioni, rapporti economici e sistemi produttivi differenti, modalità relazionali uomo-macchina sulle quali ripensare il mercato del lavoro). Insomma, serve rendersi conto che siamo agli inizi di una nuova era in cui, probabilmente entro pochi anni, gli attuali parametri che regolano le nostre società, verranno ripensati e riformulati grazie al ricorso e al ruolo di queste tecnologie.
Cosa sta accadendo? Cominciamo dal business nel nostro day by day, quello che è a noi più vicino, dalle applicazioni che usiamo ogni giorno (ovunque e su ogni dispositivo) quando lavoriamo. L’intelligenza artificiale e il machine learning, grazie alla disponibilità elaborativa garantita dal cloud, da sistemi con infrastrutture integrate e super performanti, con semiconduttori innovativi in grado di reggere capacità elaborative enormi, reti ultraveloci e sempre più intelligenti, entrano in modo pervasivo nella fruizione di differenti moduli applicativi. Chi fa marketing, sales, chi opera all’interno di supply chain o nella produzione industriale, già si trova ad avere sempre più funzioni di intelligenza e di autonomia operativa (autonomous) che lo aiutano nel proprio lavoro. Tecnologie di AI integrate nelle funzioni dei servizi applicativi in cloud che vanno ad impattare subito su attività ancora oggi svolte manualmente: ERP (30% la percentuale manuale nella compilazione e gestione di fogli Excel); SCM (65% nel tracking delle merci); CRM (60% nel supporto e nella relazione telefonica con i clienti); HCM (35% in attività routinarie di gestione amministrativa delle persone).
Una intimità uomo-macchina
In che modo avviene questo affiancamento all’essere umano e al suo lavoro?
Funzioni di intelligenza artificiale e machine learning applicate all’analisi dei dati (sempre più big data), in rapporto al tipo di richiesta, al tipo di utilizzo che la persona sta facendo in quel momento o che abitualmente si trova a compiere, offrono risposte, indicazioni, percorsi da seguire, suggerimenti derivati da una continua attività sotterranea di autoapprendimento e miglioramento attraverso l’analisi dei dati, studiando modelli e utilizzando pattern in funzione delle esigenze operative dell’utente che sta usando quella specifica applicazione. E in aggiunta, per creare ancora maggiore “affinità” e “intimità” uomo-macchina, ecco uno sviluppo imponente, già alla soglia di un primo livello di maturità, rappresentato dalle interfacce vocali. Non i semplici assistenti che abbiamo oggi sullo smartphone, ma intelligent conversational agents che lavorano con noi, che ci danno, dopo che l’applicazione ha analizzato i dati, le risposte e le indicazioni operative opportune, si confrontano con le nostre obiezioni e le richieste di ulteriori analisi, capiscono il nostro modo di operare, organizzano e pianificano attività, e in una forma linguistica perfettamente “umana”, ci coadiuvano nel nostro lavoro.
Tutto questo è già possibile e già avviene oggi, anche se siamo alle prime forme.
Dove si inseriscono questi elementi di automazione e di intelligenza? In un contesto evolutivo sia del business di impresa sia del nostro modo di vivere, in cui i dati rappresentano la maggiore fonte a cui attingiamo quotidianamente per fare ogni cosa. E la capacità di utilizzare questa fonte nel modo più opportuno e più efficace comincia a rappresentare un forte differenziale tra le persone, tra le aziende, tra le nazioni.
Tra le persone. Il dibattito sull’impatto dell’intelligenza artificiale sull’evoluzione delle persone e del lavoro è oggi molto vivo, anche se non ha ancora “scaricato a terra” nulla di concreto a livello normativo. Certamente il Gdpr e tutte le norme che cercano di definire regolamentazioni in tema di privacy e di trattamento dei dati, andranno sempre più applicate da una corretta prospettiva, cioè non quella di obblighi di compliance ai quali, rispettando una check list, bisogna assolvere, ma una guida indispensabile per muoversi il meglio possibile nel contesto digitale, sociale e di business e nella sua materia prima, i dati.
Con l’AI siamo nella fase di studio, di confronto e di prima comprensione. Ma certo la domanda, e la retribuzione delle persone, è prevista in forte aumento per chi saprà nei prossimi anni sviluppare competenze ed esperienze in lavori in cui è difficile applicare criteri di automazione, lavori ad alto contenuto cognitivo. Una nuova serie di attività ripetitive saranno invece inevitabilmente sostituite, ad una velocità però maggiore del tasso di sostituzione che ha caratterizzato l’impatto dell’informatica per come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. La rivoluzione delle competenze toccherà molti ambiti professionali. Ad esempio nell’It, veniva citato al recente Oracle Openworld di San Francisco, si cercheranno professionisti dei dati, robot supervisor, specialisti nella gestione delle interfacce uomo-macchina, smart city tech designer, specialisti di sistemi AI applicati al mondo sanitario e a tanti altri settori, ecc. E naturalmente si aprirà una vera e propria “guerra dei talenti” tra le aziende per accaparrarsi le competenze indispensabili.
Quali riflessioni e tentativi di risposta la nostra società sta dando a questa rivoluzione delle competenze? Interessante, ad un recente incontro “Dialoghi tra l’oggi e il futuro” organizzato da Microsoft, la posizione espressa da Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, considerando il sindacato una delle parti sociali che se fino ai tempi di una classica industrializzazione ha saputo occupare uno spazio di contrattazione collettiva significativo, ha poi via via perso di peso politico fino all’attuale relativa marginalizzazione nell’era digitale: “è mancata innanzitutto al sindacato la competenza rispetto alla tecnologia e al futuro. C’era bisogno di trovare nemici a buon prezzo: il digitale, la globalizzazione…La verità è che il digitale può solo far bene al sindacato e al lavoro, ma certamente va ripensato in modo nuovo il concetto di tutela. Oggi il lavoro nel mondo del digitale non è né dipendente né autonomo. Oggi si parla di contratto ibrido. Dire che lo smart worker può essere solo un lavoratore dipendente, è una follia. Il digitale spiana le organizzazioni burocratiche e noi su questo non siamo stati in grado di immaginare il futuro della persona. Anzi, peggio: abbiamo commesso una follia ideologica provando a inscatolare il digitale e il mondo del lavoro nuovo nelle logiche e nei criteri organizzativi del mondo del lavoro del 900. Bisogna girare pagina e scrivere su un foglio bianco”.
Tra le aziende. Un recente studio McKinsey ha stimato l’impatto delle tecniche di AI sul Pil in rapporto all’aumento di attività economica globale da queste generata: circa 13 trilioni di dollari dal 2030 con un impatto di 1,2% addizionale sul Pil per anno. Il confronto viene fatto con altre tecnologie introdotte nei secoli scorsi, il cui impatto economico è stato misurato: nel 1800, con la seconda fase della rivoluzione industriale e l’introduzione dei motori a vapore, la stima è stata dello 0,3% sul Pil; la robotizzazione della produzione attorno agli anni 1990 ha portato +0,4%; la diffusione dell’information technology, misurata attorno all’anno 2000, lo 0.6%.
In questo contesto, le imprese sono chiamate a ridisegnare le proprie organizzazioni, le competenze al loro interno, a sviluppare modelli interpretativi della complessità competitiva, a proporre nuovi modelli relazionali con il mercato e con i clienti sulla base di uno sfruttamento pervasivo, distribuito nella propria organizzazione, di tecnologie di Intelligenza artificiale. Il rischio di perdere competitività, nel non farlo, proprio per il potenziale che questi sistemi hanno e le opportunità che aprono, è alto.
…abbiamo commesso una follia ideologica provando a inscatolare il digitale e il mondo del lavoro nuovo nelle logiche e nei criteri organizzativi del mondo del lavoro del 900. Bisogna girare pagina e scrivere su un foglio bianco
Tra nazioni. L’applicazione di queste tecniche di intelligenza alla difesa di un paese, all’analisi economica o alla creazione di consenso politico, sulla base di un autoapprendimento da grandi moli di dati, aprono scenari di tipo strategico che una nazione non può sottovalutare. A questo proposito grande attenzione, se non preoccupazione, soprattutto negli Usa, viene data oggi alla Cina, che sta mettendo in atto un piano quinquennale strategico nazionale (2016-2020) per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (dichiarando di voler essere il paese leader mondiale in queste tecnologie a partire dal 2030), in primis applicato al segmento business in ambito supply chain, ma destinato a pervadere ogni comparto strategico nazionale. Anche l’Europa ha messo a punto un piano da 24 miliardi di dollari destinati alla ricerca in tecnologie AI e i singoli paesi hanno in corso iniziative parallele su questo tema, con un dibattito aperto e continuo su aspetti, non secondari, legati alle implicazioni etiche di un trasferimento di conoscenza e intelligenza alle tecnologie e al rapporto tra queste e l’essere umano.
Chiudiamo con una considerazione, presa dal filosofo Luciano Floridi (professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford) presente anch’egli all’incontro Microsoft prima citato: “Negli anni 90, rispetto al futuro che le tecnologie ci avrebbero consentito, ci siamo ubriacati di un ottimismo sgangherato, californiano. Vent’anni dopo non è che abbiamo sbagliato, è che le cose sono diventate normali. Però a me sembra manchi oggi una parola di speranza. C’è molto interesse economico, interesse privato e poca speranza. Invece le tecnologie danno speranza, facilità di interazione, collaborazione e conoscenza. Dobbiamo guardare all’innovazione senza quell’ottimismo che non aveva senso anni fa ma anche senza il pessimismo che non ha senso oggi”. In pratica, sostiene il filosofo si deve guardare al futuro tecnologico, in una osmosi con l’essere umano in cui quest’ultimo sia davvero al centro dello sviluppo e ricercando un equilibrio che in tutti questi anni di consumo, di ricerca di profitto e di sfruttamento intensivo di risorse, non è mai stato considerato. È venuto il momento di riportare al centro l’essenza e l’esigenza umana e, perché no, una priorità legata ad un benessere e ad una felicità in cui le tecnologie potranno giocare, insieme a noi, una parte importante.