Poco più di 12 anni fa (era l’aprile del 2010) il mondo ha affrontato una piccola emergenza che ha scosso molte certezze. Il risveglio del vulcano Eyjafjallajökull in Islanda ha infatti bloccato il traffico aereo in Europa per un’intera settimana. In quell’occasione scrissi un editoriale in cui salutavo, con una certa ingenuità, il boom nell’adozione di strumenti di videoconferenza (+139%), augurandomi che potesse essere il primo passo verso un new normal in cui strumenti di comunicazione innovativi potessero prendere definitivamente piede.
Le cose sono andate diversamente e, per arrivare a quella “nuova normalità” legata all’adozione di strumenti UCC c’è voluto un intero decennio. A dispetto di quanto ci si aspettava, la trasformazione è avvenuta con tempi rapidissimi e un’incisività sorprendente. Al punto che una buona parte dei lavoratori è arrivata a esprimere forti resistenze nei confronti di un rientro all’ufficio. Nella lettura mainstream del tema, la causa viene normalmente identificata nell’improvvisa “scoperta” dei vantaggi legati a una maggior quantità di tempo libero provocato dal lockdown. Sarà anche vero, ma se si allarga un po’ lo sguardo, dietro al fenomeno c’è molto di più.
Prove tecniche di un nuovo approccio
La prima considerazione riguarda il fatto che quello sperimentato in conseguenza della pandemia da Covid-19 non è smart working. Come hanno sottolineato quei pochi pionieri (spesso liberi professionisti) che praticavano normalmente forme di lavoro agili, il semplice svincolo dalla presenza in un luogo fisico di lavoro è elemento necessario, ma non sufficiente, per caratterizzare l’attività lavorativa come “smart”.
Si può al massimo parlare di lavoro da remoto, cosa ben diversa e decisamente meno attraente. Diciamoci la verità: pensare che qualcuno abbia trovato esaltante l’esperienza di rimanere tappato in casa per tutto il giorno lavorando attraverso una VPN collegata alla rete aziendale è piuttosto surreale. E anche il periodo che stiamo vivendo, in cui la transizione verso una normalità post-pandemica consente una maggiore libertà negli spostamenti e nella gestione del tempo, è ancora piuttosto lontana dallo stato dell’arte dello smart working. La verità, probabilmente, è che milioni di persone hanno intravisto una possibile modalità di lavoro alternativa e ne hanno colto le potenzialità.
Un trattamento choc per il digital gap
Qualsiasi conversazione con un CIO sul tema dell’esperienza di lavoro in remoto finisce per evidenziare sempre lo stesso bilancio: tanta fatica per adeguarsi all’emergenza e un diffuso aumento della produttività da parte dell’azienda. Al di là della doverosa solidarietà per chi si è trovato ad approntare in fretta e furia un’infrastruttura per supportare l’organizzazione distribuita del lavoro, la considerazione riguardante l’aumentata produttività merita maggiore attenzione.
È solo il frutto di un cambio di mindset, determinato da un’attività orientata agli obiettivi? O è piuttosto il frutto di un training intensivo nell’uso di quegli strumenti digitali che fino al giorno al prima non venivano sfruttati al 100%?
Non è un caso, forse, che la maggior parte delle aziende che hanno registrato un balzo nella produttività siano quelle che avevano completato (o per lo meno avviato) la transizione verso soluzioni cloud, con il portato di una disponibilità di strumenti di comunicazione e condivisione di nuova generazione.
Insomma: i quasi due anni di lavoro da remoto hanno avuto un impatto rilevante sulle skill dei lavoratori, che si sono trovati improvvisamente a dipendere completamente dagli strumenti digitali e hanno dovuto, giocoforza, acquisire quelle competenze che spesso rimangono soltanto una potenzialità.
L’effetto domino sul lavoro
La vera epifania, quindi, potrebbe non riguardare tanto un’allergia ai vincoli di un orario di lavoro “rigido” o all’obbligo di sopportare spostamenti quotidiani per raggiungere il luogo di lavoro, quanto la consapevolezza della possibilità di una migliore qualità del lavoro stesso.
Certo, la conquista di una flessibilità di vita ha le sue attrattive. Ma il fenomeno di una strenua difesa della nuova modalità di lavoro non è legato al desiderio di lavorare meno, quanto a quello di poter lavorare meglio. Una percezione diffusa, legata per esempio al fatto che l’uso sistematico di calendari condivisi, strumenti di collaborazione e comunicazione, piattaforme di condivisione dei contenuti e servizi distribuiti permette di ridurre lo stress legato alle inefficienze e aumentare, di conseguenza, la qualità della vita. Precipitato nella pratica, l’uso di tutti questi strumenti offrono un supporto all’attività lavorativa di cui, oggi, nessuno vuole più fare a meno.
In quest’ottica le resistenze di chi preme per il ritorno alla vecchia normalità, spesso agitando lo spauracchio dello “smart fannullone”, mostrano tutti i loro limiti. La vera sfida è piuttosto quella di saper governare il processo verso lo step successivo, arrivando a quella logica di “anywhere workplace” che permette di fondere le nuove modalità di lavoro con i necessari (e auspicabili) rapporti interpersonali legati alla condivisione di spazi fisici.
Al netto di eruzioni e pandemie, il bilancio finale di questo percorso potrebbe sorprenderci con una “piena” messa a valore delle potenzialità degli strumenti IT.