Macchine per pensare: l’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi

Pubblicato il 03 Feb 2016

Sono passati ormai quasi nove anni da quando tenevo una rubrica su Zerouno. Il titolo riprendeva una frase di Ugo da San Vittore, teologo e filosofo vissuto attorno al 1100. Scriveva Ugo nel Didascalicon, una sorta di manuale per l’organizzazione e la conservazione della conoscenza: Coartata scientia iucunda non est. Potremmo tradurre: la conoscenza perde sapore, perde senso, se costretta da modelli, da vincoli formali. Ugo sosteneva che ogni informazione è importante. Anche ciò che sembra trascurabile contribuisce a dar senso all’infinito testo che è l’umana conoscenza. Meglio quindi conservare tutto. Scopriremo dopo come connettere una cosa con l’altra, traendo così nuovo senso dalla massa dei dati. Tutto molto attuale oggi, ancor più di nove anni fa: i Big data, massa dove nulla può esser detto a priori superfluo, sono una ricchezza da esplorare.
Per spiegare il mio modo di pormi di fronte all’informatica, devo dire due parole sulla mia storia personale. Da giovane ho lavorato in America Latina, come etnografo. Il lavoro consisteva nell’avvicinarsi a mondi sconosciuti, di cui non sapevo nulla. Così, tornato in Italia, mi sono avvicinato all’informatica. A metà degli Anni Ottanta mi sono ritrovato a essere capoprogetto di iniziative d’avanguardia, come la digitalizzazione degli archivi di una grande casa editrice. Ho continuato ad occuparmi di informatica, ma allo stesso tempo di Risorse Umane, come manager, come formatore e come consulente. In parallelo, mi sono occupato di scrittura creativa e di critica letteraria. Mettendo insieme questi diversi punti di vista, ho insegnato dal 2003 fino ad oggi presso il Corso di Laurea Interfacoltà di Informatica Umanistica dell’Università di Pisa.
Così ora ho scritto un libro: Macchine per pensare. A dire cosa intendo con ‘macchine per pensare’ ci arrivo tra un attimo. Lasciatemi partire dal sottotitolo: L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi.
Un tempo erano i filosofi a stabilire come conservare la conoscenza. Adesso siamo noi al loro posto. Noi, che costruiamo e programmiamo e governiamo macchine destinate a gestire unità minime di conoscenza che chiamiamo ‘dati’.
Ma cosa sappiamo della storia della filosofia? Si studia forse filosofia per laurearsi in Informatica? No. Si studia semmai matematica. Anzi, ad essere più precisi si studia una particolare versione della matematica: la matematica assiomatica di Hilbert. A guardar la storia, la matematica di Hilbert è il culmine di un progetto che nasce nel 1600 con Cartesio, si precisa nel 1700 con Leibniz, ed assume la sua forma contemporanea con Gottlob Frege all’inizio del 1900. Secondo questo progetto, tutte le manifestazioni del pensiero umano sono fallaci ed insicure: sono su un modo di pensare si può fare affidamento: il calcolo. Secondo questo progetto la conoscenza può essere descritta solo attraverso linguaggi privi di ambiguità, linguaggi formali, artificiali. Secondo questo progetto, ancora, la conoscenza può essere efficacemente conservata solo all’interno di modelli gerarchici e strutturati. Di questo progetto è figlia l’informatica.
Il punto è che i piani di studi universitari di Informatica ignorano questa storia. Come se il computing nascesse dal nulla, nella mente del giovane Alan Turing. Come se Turing e von Neumann non fossero cresciuti alla scuola della matematica di Hilbert. Ancor più si tengono lontani dalla storia gli avvicinamenti professionali all’informatica. Come se Ibm e Sap nascessero dal nulla, nella mente di puri tecnici.
Ecco dunque “Macchine per pensare”: un viaggio, alla ricerca delle radici culturali, storiche, filosofiche, del computing e dell’informatica.
Vedremo così che il computer, che pure ci appare come macchina eminentemente americana, è in realtà frutto del pensiero europeo: nasce negli Anni Trenta in Germania, durante gli anni della Repubblica di Weimar e del nazismo. Il primo computer è costruito a Berlino. Negli stessi anni in cui le macchine tabulatrici dell’Ibm erano strumento indispensabile per l’affermazione dello Stato di polizia hitleriano.
A ben guardare l’aura gloriosa che circonda l’immagine di Alan Turing non è poi così meritata. Il suo pensiero filosofico è poverissimo. Turing afferma: la macchina può sostituire l’uomo nel lavoro. Ma il suo stesso approccio logico impone a Turing di dare una definizione formale di ‘lavoro’. Il lavoro consiste nell’eseguire ciò che è scritto in un Libro delle Regole. Qui la faccio breve: su questa definizione si fonda il computing. Il pensiero creativo, l’intuizione, i sogni e l’immaginazione, la parte più ricca dell’essere umano, sono escluse dall’originaria definizione di campo del computing.
Se oggi il computer ci appare non solo come ‘macchina organizzatrice’, ma anche come macchina per pensare, strumento al servizio della libertà umana, è solo perché nel clima libertario degli Anni Sessanta qualche geniale visionario ribaltò il progetto di Turing, facendone qualcosa di diverso. Solo per questo abbiamo oggi il Personal Computer ed il World Wide Web.
Credo a tutti coloro che si occupano professionalmente di informatica interessi allargare lo sguardo. Purtroppo le occasioni non abbondano. Si rischia di restar prigionieri di un linguaggio stereotipato, fatto di acronimi, prigionieri di un lessico anglicizzante dietro il quale si nascondono non di rado mode e sguardi settoriali, di cui finiamo per essere vittime. Ciò che dieci anni fa si chiamava Asp adesso si chiama Cloud. Chi è esperto di Sap in molti casi sa ben poco di reti client/server, e in ogni caso gli mancano motivi per riflettere sulla storia culturale di Sap. Ci si accoda volentieri senza troppo riflettere all’ultima novità: le app, i Big data…
Le sigle e le espressioni tecniche si rincorrono e si stratificano. Oggi, nel momento in cui scrivo, le “Cose Più Moderne” si riassumono in un acronimo. Smac: Social, Mobile, Analytics, Cloud. Facile prevedere che questo acronimo già domani sarà vecchio.
Tutto questo accade oggi, quando i Chief Information Officer si trovano di fronte ad una storica novità. Il loro ruolo sta cambiando verso una dimensione di innovatore digitale più complessa. Non più solo responsabili della buona cura dei dati strutturati. Ma -come già novecento anni fa Ugo da San Vittore indicava: nihil esse superfluum- attenti alla conservazione e all’uso di ogni dato.
Non a caso si considera oggi importante che ogni Chief Information Officer, e ogni Chief Digital Officer, sappia guardare non solo ai dati, ma anche agli esseri umani – le cui azioni sono, in ultima analisi, la fonte dei dati. Chief Information Officer e Chief Digital Officer si trovano davvero, oggi, a dover far fronte alle aspettative tradizionalmente rivolte al filosofo: definire come la conoscenza umana può e deve essere conservata.
È in fondo facile guardare a un avvenire dove Macchine-Dio pensano e governano il mondo al posto dell’uomo. È facile anche cavarsela accettando passivamente l’inevitabile prospettiva di un futuro dove uomini e macchine finiscono per ibridarsi
Più difficile, ma necessario, è continuare ad osservare la scena dal punto di vista dell’uomo. A questo compito, credo, sono chiamati Chief Information Officer e Chief Digital Officer. Per questo serve uscire dagli stretti ambiti disciplinari. Serve andare oltre il filone filosofico -Cartesio, Lebniz, Frege- da cui l’informatica discende. Serve tornare a leggere Freud, Wittgenstein, Heidegger.
Si parla giustamente di ‘sguardo umanistico’. Spero che la lettura di Macchine per pensare aiuti ogni professionista dell’informatica a coltivare questo sguardo.

* Francesco Varanini ha lavorato come etnografo in America Latina e poi come manager, coprendo posizioni di responsabilità nelle Risorse Umane, nell’Organizzazione, nel Marketing e nell’ICT. Da venti anni consulente e formatore, lavora a progetti di cambiamento. Attualmente si occupa della digital transformation dell’area Risorse Umane.
Ha insegnato presso il Corso di Laurea Interfacoltà in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa. Insegna ora presso l’Università di Udine. In una vita parallela su occupa di critica letteraria.

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