Ho partecipato, un po’ di tempo fa, ad un incontro con Francesco Paulo Marconi, studioso di strategia e sviluppo dei media e attualmente a capo del Laboratorio Ricerca&Sviluppo del Wall Street Journal. Se è vero che l’automazione e le tecnologie digitali stanno ridefinendo la struttura base delle competenze (nonché la forma mentis) delle persone, i modelli organizzativi e le strategie competitive di business delle imprese, il settore dei media è certamente da anni al centro di questa trasformazione. I modelli di business, finalizzati a sostituire ritorni economici che, con grande certezza, tempo fa provenivano in larga parte da riviste e quotidiani cartacei quali vettori primari per raggiungere le persone, sono molteplici (e fantasiosi), sono in continuo mutamento e i giornalisti (e chi in generale lavora con l’informazione), costantemente in una fase di change. È il digitale, bellezza, sicuramente molto sfidante.
Marconi ci serve per darci, molto brevemente, alcuni accenni delle potenzialità legate alla gestione delle informazioni e agli impatti diretti sulla nostra professione. Ma da questo contesto possiamo declinare un tema ben più ampio: le direzioni future, sia di tipo economico sia di impatto sociale, legate al rapporto tra tecnologia/automazione e lavoro delle persone. Un tema che viene periodicamente affrontato da secoli ma che oggi, nell’evidenza della capillarità di utilizzo delle tecnologie digitali, ognuno di noi vive direttamente sulla propria pelle, sia come individuo singolo sia come soggetto inserito in un’organizzazione aziendale.
Solo alcune brevi considerazioni per non tediarvi con le specificità del nostro settore. Lo sapevate che già ormai da qualche anno un sistema di intelligenza artificiale applicato ad insiemi di dati (big data) produce differenti tipi di stories mappando diversi cluster di potenziali lettori ai quali inviare notizie “tailor made”? Ad esempio proprio il WSJ implementa queste tecnologie nell’ambito del financial reporting: viene smarcata dai sistemi la parte ripetitiva dell’indagine sui dati e della produzione di contenuti di servizio di base (andamenti azionari, relazioni societarie, dati di bilancio, ecc) e ci si occupa degli elementi di analisi strategici, davvero differenzianti, che producono valore informativo. Lo sapevate che ciò è possibile, usando strumenti semplici, molto economici, utilizzabili in cloud, con funzioni di intelligenza artificiale e machine learning, anche per produrre video? E che si possono catturare le emozioni (analisi facciale delle reazioni degli utenti/videolettori a particolari immagini) da cui estrarre dati per generare nuove news, sceneggiature, video e servizi vari (newsletter, personal news, generazione di contenuti diversificati sul singolo utente a seconda dei diversi profili)? E questa è solo la punta dell’iceberg della potenziale applicazione delle tecnologie digitali alla struttura di produzione di informazioni. “L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel mondo del giornalismo e nelle redazioni – afferma Marconi – deriva dalla necessità di mettere ordine in un mercato che produce incessantemente informazione da piattaforme differenti che competono nello stesso spazio: giornali contro emittenti, informazione digitale contro social network, ecc. Le tecnologie consentono processi di investigazione e scrittura più dinamici, storie migliori, incremento nell’attività di produzione, nuove opzioni di fruizione e condivisione… Inoltre l’Intelligenza Artificiale è in grado di prevenire il fenomeno montante delle fake news, con strumenti capaci di verificarne velocemente le fonti e le informazioni”.
Eccoci allora al primo grande bivio che la storia umana ci ha più volte messo dinnanzi e che riguarda oggi non solo il settore dei media ma un po’ tutti quanti: quanto, in questa evoluzione, prendendo sempre ad esempio il mondo dei media, sapremo ridefinire il concetto di produzione di informazioni e notizie in una direzione di maggiore qualità, di nuove capacità e competenze professionali? Quanto sapremo metterci in gioco e quanto, invece, l’automazione verrà indirizzata soprattutto alla massimizzazione produttiva, al contenimento di costo e alla sostituzione di competenze e forza lavoro? Quale equilibrio vogliamo impostare nei prossimi anni? Quanto, la tanto sbandierata sinergia tra sistemi di intelligenza artificiale e competenze umane, dovrà passare da un ridimensionamento quantitativo e qualitativo degli occupati nei vari settori e quanto invece riusciremo a ricollocare, elevare le competenze per creare nuovo valore e non solo massimizzare il rapporto costo-ricavo?
C’è un altro tema, collegato a quello appena esposto e anch’esso trasversale alla gestione delle informazioni, oggi argomento al centro di molte strategie economiche (user centric offering) e politiche: le fake news, o, in una forma più evoluta e sofisticata, l’aggregazione di informazioni e contenuti classificati secondo diversi profili di utente e le sue aspettative/predisposizioni. In altri termini, il potenziale utilizzo fraudolento e condizionante che i grandi accumulatori di conoscenze e dati relativi alle nostre vite e abitudini, Amazon, Google, Facebook, potranno sempre più attuare. Non va dimenticato che non c’è responsabilità in un algoritmo o in una tecnologia. Dietro l’autoapprendimento delle macchine c’è sempre un disegno (sviluppo software) impostato dalle persone, da chi ha una visione specifica del mondo, dei propri interessi, degli obiettivi più o meno leciti, del condizionamento sociale, politico e quant’altro. È su queste analisi che dobbiamo, singolarmente, come cittadini dal pensiero più o meno libero, elettori, consumatori, provare sempre a filtrare l’informazione e i dati che fruiamo e che diffondiamo. Come ha di recente avuto modo di affermare Tito Boeri, presidente di Inps e professore (in aspettativa) di Economia presso l’Università Bocconi di Milano, nonché direttore scientifico del Festival dell’Economia di Trento, quest’anno dedicato proprio al tema “Lavoro e tecnologia”: “Ogniqualvolta si assiste ad un’accelerazione del progresso tecnologico, le tesi secondo cui le macchine sostituiranno interamente l’uomo prendono piede. La fine del lavoro è stata decretata centinaia di volte, con un pessimismo tecnologico che trascende gli anni di crisi. Eppure nelle economie di tutto il mondo si continuano a generare milioni di posti di lavoro e il tasso di occupazione (il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa) è cresciuto nel corso del XX secolo pressoché ovunque”. Ma, si affretta il professore ad aggiungere: “Al contempo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che la storia passata è una guida molto imperfetta per ciò che ci attende nei prossimi decenni. Se c’è una cosa non lineare, questa è proprio il progresso tecnologico”.
Infatti sul tappeto ci sono oggi molte incognite legate all’impatto della trasformazione digitale sulle strutture sociali e sul pensiero collettivo ed individuale. Ad esempio, se in passato molte tecnologie di automazione del lavoro hanno ridefinito soprattutto le attività con i compiti più ripetitivi, portando naturalmente verso l’alto le competenze o spingendo per una riconversione radicale delle competenze ai livelli più bassi, oggi le tecnologie digitali, e l’intelligenza integrata in esse, ridisegnano pressoché ogni fascia professionale.
“Quanto, la tanto sbandierata sinergia tra sistemi di intelligenza artificiale e competenze umane, dovrà passare da un ridimensionamento quantitativo e qualitativo degli occupati nei vari settori e quanto invece riusciremo a ricollocare, elevare le competenze per creare nuovo valore e non solo massimizzare il rapporto costo-ricavo?”
Un medico, dalla propria esperienza e conoscenza deriva oggi una diagnosi o effettua un’operazione; ma sempre più, in futuro, l’analisi delle competenze e delle practice che un sistema di AI può effettuare su petabyte di dati, di immagini, di esperienze, porterà questa professionalità a livelli radicalmente differenti rispetto a pochi anni fa, costringendo ogni professionista a cercare nuove aree di valore. E questa trasformazione impatterà decine e decine di lavori. Insomma, il software diventa sempre più centrale nella vita personale e professionale di ognuno di noi e anche nel business; anzi il software diventa il vero brand dell’azienda. Numerosi “motori”, strettamente collegati in real time con le metriche di business, generano automaticamente insights dai dati: si tratta di piattaforme di analytics e applicazioni con intelligenze e tecniche di autoapprendimento, distribuite e integrate in modo granulare nelle varie fasi dei processi aziendali. Quanto tutto ciò sta cambiando i profili professionali, culturali di tutti noi ma anche del business delle imprese?
Non ci sono però ricette mutuate dal passato facili da applicare. C’è l’essere umano con la sua storia e la sua essenza. E insistiamo su un punto, secondo noi, centrale in questi anni in cui si sta decidendo quale direzione evolutiva dare alla tecnologia, con effetti diretti sull’economia e sulla società: basterebbe, se proprio non condividere, almeno non dimenticare del tutto un disegno di sviluppo tecnologico che considerasse il concetto di benessere umano meno legato al possesso e al consumo e più ai valori dell’individuo, con un obiettivo di ribilanciamento parziale di risorse e di ricchezza, per dare una direttrice “human centric” alla ricerca e all’applicabilità tecnologica. Una decisione che, in questi anni di relativa decadenza, ci farebbe sicuramente migliorare come specie.