“Sul PNRR bisogna essere chiari: alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati, ed è matematico, è scientifico che sia così, dobbiamo dirlo e non aspettare il 2025 per aprire il dibattito su di chi sia la colpa”. Sono le parole del Ministro Raffaele Fitto, che hanno scatenato un (giustificato) panico nell’opinione pubblica.
Su quali siano le conseguenze di una possibile (secondo Fitto certa) inadempienza nel raggiungimento degli obiettivi legati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ci sarà da discutere. I meccanismi di approvazione delle varie tranche dei finanziamenti europei, infatti, sono tutt’altro che rigide e qualche elemento di flessibilità c’è.
Resta il paradosso di un Sistema Paese che, regolarmente, fatica a mettere a terra i finanziamenti forniti dall’Unione. Anche quando questi rappresentano una cifra “monstre” di 191,5 miliardi di euro, il 40% delle risorse stanziate per 27 paesi, complessivamente, nell’ambito di Next Generation EU.
L’impatto sull’innovazione di un fallimento del PNRR
Se i ritardi negli investimenti (la Corte dei Conti parla del 6% utilizzato finora) dovessero portare a un rallentamento o addirittura al blocco del piano, sarebbe il reparto innovazione a subire i danni maggiori. Dei 191,5 miliardi complessivi, ben 40 sono infatti destinati al digitale. Tra questi, ci sono i fondi per la creazione di infrastrutture funzionali all’ammodernamento della Pubblica Amministrazione (sia a livello centrale che locale) che, in Italia, rappresentano una priorità assoluta.
Inutile sottolineare come l’intera partita abbia una doppia ricaduta. Quella a breve medio termine consiste in un effetto di “spinta” nei confronti del digitale in Italia e riguarda tutte quelle realtà produttive che saranno (o dovrebbero essere) coinvolte nel processo di modernizzazione delle infrastrutture.
La seconda, i cui effetti diventeranno (o diventerebbero) evidenti nel lungo periodo, è relativa all’impatto positivo di un sistema di PA dotate di strumenti agili, efficienti ed efficaci. Insomma: comunque la si guardi, il fallimento del PNRR rappresenterebbe un disastro.
Le risorse ci sono, mancano le competenze
Leggendo la relazione della Corte dei Conti, emergono i soliti problemi: un indice DESI legato al capitale umano estremamente modesto, un cronico squilibrio a tutti i livelli tra nord e sud, dati sconsolanti relativi a fattori come la “intensità digitale”.
A leggere dati e commenti che si stanno susseguendo nelle ore successive alla presentazione della relazione e alle dichiarazioni del Ministro, un primo elemento appare chiaro: nel settore pubblico c’è uno shortage di competenze. Verrebbe da dire “bella scoperta”, soprattutto per chi lavora nel settore digitale e con questa scarsità di competenze ci deve fare i conti tutti i giorni, anche nel settore privato.
Nelle PA, però, la situazione è drammatica. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato, tra il 2020 e il 2022 negli enti locali c’è stato un calo del 24% nel numero dei dipendenti. Una “cura dimagrante” avvenuta sostanzialmente attraverso il blocco del turnover. Risultato: gli impiegati negli enti locali non sono solo meno, ma sono anche più anziani. L’età media è di 53 anni, con il 65% degli impiegati con più di 50 anni.
Se si aggiungono a tutto questo l’uso intensivo di contratti a tempo determinato e l’esternalizzazione dei servizi, è evidente come una bella fetta delle PA si trovi oggi senza risorse per “mettere a terra” gli investimenti.
E nel privato? Meglio pensarci prima…
Se nella PA questo tipo di analisi porta sicuramente a recriminazioni e (auspicabilmente) a un impulso al cambiamento, nel settore privato dovrebbe spingere a una riflessione. Il tema dello shortage di risorse e, più in generale, la diffusa preoccupazione legata alla capacità di reclutare e trattenere i talenti, è qualcosa che agita il settore digitale da molto tempo.
La situazione è peggiorata con il fenomeno delle “great resignations”, giunte proprio in concomitanza di una fase in cui l’accelerazione, a livello di innovazione, sta diventando uno dei fattori di selezione nel mercato. In altre parole: chi non tiene il passo con il cambiamento è destinato all’oblio.
Il rischio da evitare è che questo accada non tanto a causa di una mancanza di risorse finanziarie, quanto per l’impossibilità di avere quel “capitale umano” (termine terribile) che permette di mettere a terra i progetti.
Ecco, se c’è una parte del PNRR che bisogna tutelare a tutti i costi, è proprio quella dedicata al “trasferimento tecnologico”. Sono 2 miliardi di euro, di cui 350 milioni destinati a “potenziamento ed estensione tematica e territoriale dei centri di trasferimento tecnologico per segmenti di industria”.
Alla luce di quanto sopra, possiamo solo sperare (e impegnarci) affinché vada a buon fine. Altrimenti, in un prossimo futuro, rischiamo di trovarci a dire “potremmo, ma non ci riusciamo”. Che tristezza…