“Effetto albero genealogico: la mia attività si va ramificando con sempre maggiore rapidità”: qualche giorno fa stavo chiacchierando con una top manager a livello europeo di una primaria azienda del mondo telco e questa sua rappresentazione del modo in cui ci si trova a lavorare oggi mi è rimasta impressa.
L’esperienza della top manager, che chiameremo Carla, è simile a quella che molti di noi hanno vissuto in questo ultimo anno: “All’inizio ero molto contenta di lavorare da casa. Avendo un incarico internazionale, ogni settimana dovevo andare in un paio delle città europee di mia responsabilità. Con il lockdown è cambiato tutto: azzerate le ore di volo, annullati i tempi morti inevitabili in questi casi, mi si sono improvvisamente liberate alcune ore. Finalmente potevo dedicare più tempo alla famiglia, a mia figlia”, ha iniziato a raccontare Carla. “E questo non era il solo aspetto positivo: le riunioni, in teleconferenza, rispettavano i tempi prefissati; avevo la possibilità di incontrare, seppure attraverso il monitor del PC, molte più persone di prima. Riuscivo a fare molte più cose di prima”.
Ed ecco, forse è proprio qui che si è innescato il circolo vizioso che ha portato Carla a sbottare con un “non è umano lavorare così” alla fine della nostra conversazione.
Come si è arrivati a “non è umano lavorare così”
Cosa è successo tra l’entusiasmo iniziale e il crollo, un anno dopo, che ha portato Carla a vivere con un estremo disagio il suo lavoro?
È successo che man mano che le settimane passavano, Carla ha “occupato” quelle preziose ore che si erano magicamente liberate e poi l’occupazione è andata oltre, travalicando quell’ormai effimera disponibilità, per riempire ogni interstizio della giornata: “Si, perché alla fine, le call sono state sempre più frequenti. Non facevo in tempo a chiuderne una che dovevo subito collegarmi per un’altra. Se prima le riunioni avevano una certa cadenza, erano programmate, adesso il ritmo è allucinante… e poi…c’era un filtro maggiore, ero coinvolta solo in riunioni di un certo tipo”.
Eh già… perché adesso è tutto più semplice. Basta un messaggio in chat: “Ci sei?” e se si legge il messaggio è finita.
Una volta aperto, il nostro interlocutore “vede” che è stato letto e allora è difficile riuscire a non rispondere almeno con un: “Sono incasinata, è urgente?”.
“Ti rubo solo un minuto”.
Ecco, il disastro è compiuto, l’effetto albero genealogico è innescato perché il collega o capo che sia ci metterà anche meno di un minuto a dire la cosa per la quale ci ha contattato, ma quasi sicuramente “quella cosa” richiederà un’attività da parte nostra. Ed è un’attività che dobbiamo inserire nella nostra lista “to do”, non importa sia una cosa impegnativa o che porta via solo qualche minuto: è un filo pendente, che va a sommarsi a decine di altri fili pendenti e “chiudere il task” sta diventando un’ossessione.
Quindi, se il 2020 è stato l’anno dello smart working, il 2021 rischia di diventare l’anno del burnout da smartworking.
L’ho già scritto tante volte, io sono un’entusiasta dello smart working. In tempi decisamente non sospetti, era il 2000, mi licenziai da un’ottima posizione proprio perché volevo lavorare in un modo diverso e mi rendevo conto che, grazie a Internet, potevo finalmente farlo. All’inizio non è stato semplice, il lavoro ha rapidamente fagocitato ogni momento della mia vita; avevo l’assillo della “consegna” e lavoravo un numero spropositato di ore. Poi ho iniziato a capire che dovevo darmi delle “regole”, regole del tutto personali (non intendevo certo riprodurre in casa la routine della redazione, che poi era stato il principale motivo del mio licenziamento), ma che mi aiutassero a separare chiaramente il tempo del lavoro dal mio tempo personale: nella pratica e nella testa.
Diciamo che con un buon lavoro psicologico su me stessa, in un tempo relativamente breve ho trovato il giusto equilibrio.
Il problema non è più personale
Quindi per non essere “bruciati” dallo stress da lavoro è sufficiente fare un po’ di lavoro su sé stessi? Aiuta sicuramente, ma non basta perché il fenomeno non riguarda più solo noi come singoli individui: è diventato un fenomeno sociale e, come tale, richiede un impegno da parte della società nel suo insieme per essere affrontato e superato.
È vero, oggi siamo in una situazione particolare, molto diversa da quella che mi sono trovata a vivere io ormai vent’anni fa:
- la mia era stata una scelta; a partire da marzo 2020 il lavoro da remoto è stato, per gran parte della popolazione, un obbligo;
- essendo una scelta, io mi sono organizzata uno spazio, seppure all’interno di una casa modesta, esclusivamente dedicato al lavoro, con l’attrezzatura necessaria; oggi molti si sono trovati a lavorare sul tavolo della cucina, seduti su uno sgabello;
- io ero in casa da sola, ma anche se avessi avuto figli sarebbero andati normalmente a scuola e il mio compagno in ufficio; oggi ci si è trovati a lavorare in case “affollate” da figli in DAD e compagni a loro volta in smart working forzato;
- non ultimo, la pandemia ci impedisce di fare la maggior parte delle cose che prima occupavano il nostro tempo libero: cene con gli amici, cinema, teatro, gite ecc.
Con il graduale ritorno alla normalità dal punto di vista sanitario, le nostre case si svuoteranno e chi rimarrà a lavorare da casa potrà farlo con maggiore serenità, ci si attrezzerà con spazi diversi, torneremo ad andare al cinema, ad uscire ecc. Ma questo non risolverà il problema di fondo perché quello che ci aspetta nella “nuova normalità” è un mondo del lavoro molto diverso, dove lo smart working avrà, come prevedono tutte le analisi, una diffusione molto ampia.
È dunque indispensabile che il disagio che fasce sempre più ampie di lavoratori manifestano sia preso in debita considerazione affinché un fenomeno di per sé positivo, lo smart working appunto, non si trasformi in un incubo sociale.
Il burnout da smart working
Ma cos’è il burnout? Certo non è un fenomeno nuovo: negli anni ’70 si è iniziato a utilizzare il termine burnout relativamente a determinate professioni (medici, infermieri, insegnanti, poliziotti, assistenti sociali ecc.) che entrano costantemente in contatto con il disagio, la sofferenza e dove il profondo coinvolgimento emotivo può portare a un lento processo di logoramento.
Non sono una psicologa e quindi non mi permetto di “spiegare” le conseguenze patologiche di questa situazione, ma credo sia importante essere consapevoli che quello che inizialmente può essere un semplice disagio rischia di trasformarsi in una vera e propria sindrome se non affrontato adeguatamente. I manuali ci dicono che la sindrome da burnout non si manifesta quasi mai in modo improvviso, ma che le sue caratteristiche principali (“senso di esaurimento o debolezza energetica; aumento dell’isolamento dal proprio lavoro con sentimenti di negativismo o cinismo e ridotta efficacia professionale”, citando l’OMS) si accentuano gradualmente passando attraverso quattro fasi:
- entusiasmo idealistico, in cui il lavoratore è fortemente motivato a lavorare.
- stagnazione, in cui l’operatore continua a lavorare, ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni.
- frustrazione, in cui l’operatore comincia a credere di non essere più in grado di aiutare gli altri.
- disimpegno, in cui il lavoratore può pensare di lasciare il lavoro o non investire più.
Nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito la sindrome da burnout nell’undicesima International Classification of Diseases, ma se questa problematica era in genere legata alla percezione di uno squilibrio tra le esigenze della professione e la propria capacità a soddisfarle, il cosiddetto burnout da smart working si caratterizza per due elementi molto precisi: incapacità o impossibilità di disconnettersi dal lavoro; incapacità o impossibilità di avere orari precisi di attività lavorativa, come in ufficio.
In pratica una vera e propria impossibilità di “staccare”. Anche questa non è una novità, già da qualche anno si parla di stress da always on, tanto da richiedere interventi legislativi sul “diritto alla disconnessione”.
E allora, cosa c’è di diverso oggi? In cosa il burnout da smart working, come si sta manifestando a un anno dalla sua diffusione pervasiva, si differenzia dallo stress da always on che abbiamo conosciuto finora?
La differenza sta nella scala del fenomeno: mentre prima del lockdown, il problema riguardava alcune fasce di lavoratori, alcune tipologie di mercati, oggi la diffusione dello smart working e l’utilizzo pervasivo di strumenti di collaborazione danno una dimensione sociale al fenomeno. Che richiede la messa in atto di alcuni correttivi.
Cosa possiamo fare per non soccombere al burnout: alcuni consigli personali
I correttivi possono essere diversi e messi in atto da soggetti differenti: noi come individui che dobbiamo imparare a darci delle regole; le aziende dove lavoriamo che devono promuovere comportamenti virtuosi; le techcompany che potrebbero realizzare prodotti meno invasivi.
Per i correttivi individuali mi attengo sempre ai manuali che, nelle regole base, indicano: organizzare e definire gli orari lavorativi; fissarsi obiettivi ragionevoli; definire una lista di priorità; lavorare in un ambiente o in uno spazio definito; prendersi il tempo per cambiare aria e respirare; dedicare il giusto tempo al riposo.
A questi aggiungo alcuni miei personalissimi consigli che vanno sicuramente calibrati sul tipo di lavoro che si svolge, ma che penso possano adattarsi al 90% delle attività.
La mia prima regola aurea è: non sono la dea Kalì e quindi non posso svolgere 10 attività contemporaneamente. Basta rispondere a una mail o a una chat mentre si è in call; basta seguire le notifiche come se fossero sirene e interrompere la scrittura di un articolo perché si vede il messaggio di un collega; basta mangiare un panino guardando la posta ecc. È una regola che faccio molta fatica a rispettare, ma ecco alcuni piccoli trucchetti che mi aiutano:
- tenere sempre attiva la videocamera nelle call: oltre a essere più cortese nei confronti dei nostri interlocutori, sarete obbligati ad avere un aspetto decente, ma soprattutto non potrete leggere mail, rispondere a chat, insomma fare altri lavori mentre siete in chat (l’interlocutore se ne accorgerebbe);
- disattivare le notifiche delle mail e darsi degli orari (una volta ogni ora, ogni due, a mezza mattina…dipende dal lavoro che si fa) per guardarle;
- evitare di utilizzare WhatsApp per lavoro (a meno che non si tratti di WhatsApp Business): è il sistema di messaggistica per eccellenza che usiamo nella nostra vita privata, utilizzarlo per lavoro equivale a non staccare mai; inoltre è sicuramente poco funzionale.
La seconda regola (e su questa sono diventata talebana): ogni lavoro richiede il suo tempo. Devo essere io a guidare la mia giornata lavorativa e non subirla come se cadessi ogni mattina in un fiume impetuoso. Anche qui qualche piccolo consiglio:
- non basta inserire un’attività nella lista “to do”, quando lo faccio devo immediatamente “occupare” nel calendario il tempo necessario per svolgerla (possibilmente non il giorno prima della scadenza, ma tenendomi un po’ di margine);
- trovare un momento (io preferisco farlo il venerdì pomeriggio) in cui guardare tutte le attività in programma nella settimana: inevitabilmente ci sono alcune settimane più pesanti di altre, ma se ho un quadro di massima di quello che mi aspetta vivo meglio anche i periodi più impegnativi;
- lasciare almeno 15 minuti (ma sarebbe meglio mezz’ora) tra una call e l’altra perché al termine di ogni call bisogna avere il tempo di sistematizzare quanto definito;
- non dico che tutte le attività richiedano la stessa capacità di concentrazione, ma quando è necessario bisogna avere il coraggio di estraniarsi totalmente da quello che i vari device digitali vorrebbero comunicarci;
E le aziende? In quale modo possono supportare i propri collaboratori affinché vivano serenamente e con soddisfazione il rapporto di lavoro in questa nuova modalità, senza soccombere al burnout? Ovviamente non mi addentro nelle complesse tematiche di revisione organizzativa che richiede l’adozione di un modello vincente di smart working, ma mi limito ad alcune frugali indicazioni derivanti dalla mia esperienza e dal confronto che in questi mesi ho avuto con tanti CIO:
- adottare piattaforme e strumenti di collaborazione professionali per comunicare internamente: l’utilizzo della mail è decisamente poco funzionale e quello di strumenti consumer impedisce la separazione tra vita privata e lavoro;
- considerare 15 minuti prima e 15 minuti dopo ogni call come parte della call stessa, in modo che ci sia il tempo necessario per prepararsi o metabolizzare l’incontro;
- inserire in automatico un alert che segnala quando si stanno inviando mail o messaggi istantanei al di fuori dell’orario “canonico” di lavoro e che, eventualmente, invita a ritardarne l’invio in un orario più consono;
- chiedere sempre la disponibilità prima di inviare il calendar per una call: anche se possiamo vedere i calendari dei nostri colleghi e collaboratori, non bisogna dare per scontato che un orario libero da impegni significhi essere disponibili ed è sempre molto spiacevole dover rispondere con un “rifiuto” a un calendar, soprattutto se viene dal tuo capo.
Consigli e indicazioni molto banali, lo riconosco, ma a volte basta davvero poco per non farci sorprendere dal burnout.