Lo ha detto bene lo zio Ben a Peter Parker: “Da un grande potere, derivano grandi responsabilità”. I decision maker in ambito IT hanno dovuto fare amicizia con il concetto nel corso della pandemia da Covid 19, quando sembrava che la salvezza dell’umanità intera dipendesse dalla possibilità di collegarsi a una piattaforma di prenotazione dei test.
Per fortuna, eravamo attrezzati. Il mantra “flessibilità, scalabilità” era già stato introiettato da tutti gli addetti ai lavori e, a dirla tutta, è stata l’occasione per dare una sveglia a chi continuava a ignorare le richieste degli amministratori IT in termini di modernizzazione.
Una volta sdoganato il concetto per cui la tecnologia può salvarci tutti dalle catastrofi (più o meno) naturali che si abbattono sul pianeta, gli stessi decision maker in ambito IT si sono trovati ad affrontare un tema spinoso come lo sgretolamento della supply chain, in cui alla pandemia si è aggiunta pure la guerra in Ucraina.
Il tutto ha portato alla centralità un concetto che, fino a qualche anno fa, non aveva cittadinanza nel mondo delle nuove tecnologie: la resilienza. Banalizzando il concetto, lo si può riassumere così: “siete stati bravissimi a reagire a situazioni di emergenza, adesso ci aspettiamo da voi non solo la capacità di reagire, ma anche quella di prevenire”. Insomma: il desiderio è quello di avere un’infrastruttura IT aziendale “disaster proof”. Attenzione, però, perché il rischio di distrarsi è piuttosto elevato.
Scegliere il campo di gioco
Il rischio di volgere lo sguardo ai fenomeni esogeni è abbastanza scontato: dimenticarsi le best practice legate alla gestione di sistemi (sempre più) complessi come quelli informatici. La narrazione di una fase storica in cui l’evoluzione tecnologica ci permette di fare fronte con maggiore facilità agli imprevisti, in buona sostanza, rischia di distrarci dall’impatto che gli imprevisti possono avere sulle infrastrutture che usiamo.
Vero che le logiche data driven, l’introduzione di Machine Learning e Intelligenza Artificiale (generativa e non) stanno amplificando i nostri super poteri. Meglio però ricordarsi che tutto questo si innesta su un’infrastruttura terribilmente complessa e delicata.
Un esempio è quello delle previsioni meteo nel corso della pandemia. Qualcuno si ricorda che erano diventate assolutamente inaffidabili? Il motivo, è stato spiegato poi, era legato al fatto che buona parte dei dati utilizzati per elaborare le previsioni del tempo arrivava dai sensori installati sugli aerei di linea. Informazioni sul livello di umidità dell’aria, temperature, velocità dei venti, sono usate per prevedere gli eventi climatici a livello globale.
Con la riduzione degli spostamenti legati alla pandemia, e la conseguente diminuzione del numero dei voli di linea, ci siamo trovati di fronte a uno shortage di informazioni e a un peggioramento nella qualità delle previsioni meteo. Di tutte le possibili conseguenze di una tragedia come quella del Covid 19, questa era senza dubbio la meno prevedibile.
Le conseguenze, per fortuna, non sono state particolarmente gravi. Ma cosa sarebbe successo se un effetto domino del genere avesse coinvolto qualcosa di più impattante a livello socio-economico?
Il crash-test del 2024
La curiosità potremmo togliercela nel giro dei prossimi 12 mesi, quando la stella al centro del nostro sistema potrebbe decidere di ricordarci quanto siano precarie le certezze che abbiamo. Nel corso del 2024, infatti, il sole potrebbe (dovrebbe) invertire i suoi poli magnetici. Francamente ignoravo il fenomeno, riassunto in questo corposo articolo che ne spiega dinamiche e possibili conseguenze.
In sintesi: ogni 11 anni il sole attraversa questa trasformazione, che porta a una serie di conseguenze piuttosto affascinanti. Tra queste, il fatto che l’inversione dei suoi poli magnetici porta instabilità e (qui arriviamo al nocciolo della questione) a tempeste solari caratterizzate dall’emissione di ondate di radiazioni. Piccolo dettaglio: l’ultima inversione dei poli risale al 2013, quindi la prossima è prevista quest’anno.
Stando a quanto spiegano gli scienziati, nella maggior parte dei casi il campo magnetico terrestre è in grado di deviare queste tempeste solari, ma nel caso in cui il nostro pianeta fosse investito da ondate particolarmente dirette e intense, le conseguenze sarebbero tutt’altro che lievi. In particolare, sarebbero a rischio i dispositivi elettronici, che “soffrono” i fenomeni elettromagnetici anche più di noi esseri umani.
Ovviamente, i dispositivi più a rischio sono quelli che si trovano più vicini al sole, cioè i numerosi satelliti che orbitano intorno al pianeta Terra e che svolgono funzioni piuttosto importanti: dalle telecomunicazioni al traffico Internet, passando per la localizzazione GPS. Insomma: il rischio consiste nel fatto che una tempesta solare sufficientemente potente possa danneggiare gravemente, compromettendo una serie di servizi infrastrutturali dati per scontati ma che, progressivamente, diventano indispensabili per la gestione di aspetti fondamentali della nostra vita.
Sulle conseguenze del prossimo crash test possiamo solo fare speculazioni. Nel frattempo, la (ennesima) spada di Damocle che pende sul capo della nostra civiltà dovrebbe interrogarci sulle strategie di resilienza che stiamo adottando. Ad esempio, riconsiderando il concetto di ridondanza abbandonando una semplice logica quantitativa per arrivare a una differenziazione a livello di modalità. Insomma: concentrarsi sulla necessità di prevedere, by design, un “piano B” potrebbe essere l’unico modo per essere in grado fare fronte all’imprevedibile.