Cisco: l’Agrifood italiano ha bisogno di cultura e sistematicità

Una ricerca promossa da Cisco evidenzia come, pur nella sua disomogeneità, il settore agrifood italiano sia a un punto di svolta verso la trasformazione digitale. Tracciabilità e processi al centro della prossima wave di investimenti

Pubblicato il 08 Mag 2017

agrifood-vitivinicolo

Il settore agrifood manca di una visione d’insieme. Manca della capacità di focalizzare strategie e approcci che ne promuovano, anche in una logica di aggregazione, lo sviluppo e la crescita grazie all’utilizzo mirato e consapevole delle tecnologie.

È questo il primo dato che emerge dalla ricerca “Gli Impatti della Digital Transformation sul settore Agrifood”, condotto da Digital Transformation Institute in collaborazione con Cisco Italia.
L’assenza di un quadro di insieme è il limite che rende più difficile la diffusione della consapevolezza dei benefici derivanti da un percorso di trasformazione digitale.
Se a questo si aggiungono poi la scarsità di figure qualificate e competenti, la scarsa percezione del bisogno di innovazione e la mancanza di un approccio sistematico, appare chiaro che ci sia parecchio da lavorare.

Non si tratta di una situazione omogenea, lo studio lo mette bene in evidenza, ma al momento sono attente ai temi della trasformazione digitale soprattutto le aziende di grandi dimensioni, quelle che operano già a livello industriale e che una volta investito riescono anche a percepire il valore dell’investimento fatto.

Manca, ed è questo un vulnus da tenere in considerazione, la “coda lunga del settore agroalimentare“, come la definisce Michele Festuccia, responsabile dei progetti rivolti a questo settore nel piano Digitaliani di Cisco, vale a dire quelle migliaia di aziende di piccole e medie dimensioni che ancora non sanno valutare né gli investimenti né i benefici: del resto, proprio l’assenza di un approccio sistematico non aiuta il processo valutativo.
Attraverso la tecnologia queste aziende potrebbero affacciarsi su un mercato più ampio, migliorare il controllo dei loro processi produttivi,  riconoscere e far riconoscere la qualità, l’eccellenza, l’originalità dei loro prodotti e crescere”, spiega a sua volta Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute, sottolineando come sia necessario un importante lavoro di diffusione di cultura e competenze digitali, a partire dalle scuole fino a toccare tutti gli attori di ciascuna filiera.

Un metodo come base per la ricerca

Al comparto agrifood afferisce oggi il 21,7 per cento degli occupati del nostro Paese e rappresenta uno dei comparti di eccellenza del nostro Sistema-Paese.

L’assunto di partenza è chiaro: il settore agroalimentare non può che essere parte integrante del processo di digitalizzazione che sta attraversando l’Italia, ma, come ha sottolineato Michele Festuccia, responsabile dei progetti rivolti a questo settore nel piano Digitaliani di Cisco, è importante che il percorso sia supportato anche da un linguaggio adatto, che ne renda più semplice la comprensione da parte di tutti gli attori coinvolti.

La ricerca ha preso il via con un’analisi dettagliata dell’utilizzo delle tecnologie nel comparto agroalimentare, preso in esame in tutte le filiere che lo compongono e in tutte le diverse fasi e processi che lo caratterizzano.

L’obiettivo di partenza è stato quello di individuare tutte le tecnologie e non solo quelle strettamente ICT che vengono utilizzate nel comparto, allo scopo di comprendere quali hanno l’impatto maggiore e quali possono essere gli elementi di criticità maggiori.

È chiaro che per poter completare lo studio, con i livelli di dettaglio desiderati, era necessario disporre di un modello secondo il quale analizzare tutti i dati, vale a dire il livello di digitalizzazione, la tipologia di tecnologie, gli investimenti ripartiti per filiera.
Ed è quello che lo studio ha sviluppato, così da creare un questionario da sottoporre a ciascuna filiera, partendo da quella del vitivinicolo.

 

 

Le filiere dell’agrifood: si parte dal vitivinicolo

L’analisi, come accennato, si è concentrata in questa prima fase sul segmento vitivinicolo: l’indagine ha coinvolto 370 aziende, selezionate così da formare un campione rappresentativo del comparto, che in Italia ha una presenza omogenea su tutto il territorio, lavora secondo una logica di filiera integrata e viene considerato settore maturo.

Il primo dato che emerge dall’analisi è che oltre il 77 per cento delle imprese non ha investito in tecnologie ICT negli ultimi 5 anni. Il massimo investimento per questa fascia di imprese si è attestato al di sotto dei 5.0000 euro. Il restante del campione, che dunque ha sostenuto investimenti più importanti, è rappresentato da aziende di più grandi dimensioni.

Il problema, evidenziato dall’analisi, è che anche dove ci sono stati, gli investimenti hanno interessato la parte finale della filiera, vale a dire la distribuzione e la vendita diretta al pubblico, che cubano rispettivamente il 41 e il 43 per cento delle risposte. Altri investimenti hanno riguardato gli aspetti di gestione aziendale o l’ottemperanza alle normative di legge.

Bisogna allargare la logica temporale per veder comparire altri elementi di priorità.
Nel prossimo futuro, emerge dallo studio, cresce il numero di aziende che intendono investire nel digitale qualcosa di più dei 5.000 euro di soglia minima. Cresce soprattutto, il numero di aziende interessate ad adottare tecnologie che consentono un miglioramento dei cicli di produzione e un’ottimizzazione dei processi di trasformazione, e che rendono centrali i temi di tracciabilità, sicurezza, logistica. In particolare, la tracciabilità riscuote specifico interesse: il 51 per cento dei rispondenti ritiene addirittura che debba essere pratica obbligatoria, anche perché ritenuta utile alla promozione commerciale dei prodotti, come sostiene il 31 per cento del campione.

Chi ha investito, ed è questo un elemento di criticità, ritiene di non aver notato una positiva incidenza sui ricavi (lo sostiene il 47 per cento degli interpellati), accompagnato da una nutrita pattuglia di aziende (il 15 per cento) che non sa proprio come valutarli.

Ed è chiaro che solo un approccio omogeneo e strutturato può aprire nuovi spiragli per tutti gli attori del comparto.

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