I dispositivi IoT sono una formidabile fucina di dati. Dalle informazioni sul funzionamento dei device a quelle sulle abitudini degli utenti, passando per il monitoraggio di interi processi produttivi, l’Internet of Things mette oggi a disposizioni delle aziende decine e centinaia di dataset che, se raccolti e analizzati a dovere, sono in grado di garantire un valore aggiunto a tutta la catena di produzione e vendita. La grande sfida posta dall’evoluzione dei dispositivi smart (contatori energetici, macchinari industriali, auto connesse, ecc.) risiede proprio nella valorizzazione dei dati generati.
Un processo che, sottolinea uno studio degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, sta assumendo un’importanza crescente soprattutto alla luce di alcuni trend: la fornitura di dati utili ad ampliare l’offerta; l’utilizzo crescente che i grandi player, dagli OTT a quelli tradizionali, fanno delle informazioni digitali per orientare le proprie strategie; il fermento delle startup focalizzate sulle soluzioni IoT. Secondo il report del Polimi sono cinque gli schemi di valorizzazione dei dati generati dall’Internet of Things.
IoT, il valore aggiunto dei dati dalla fabbrica al negozio
Il primo riguarda l’ottimizzazione dei processi interni, con ricadute positive in termini di aumento dell’efficienza (riduzione di costi e tempi) e di efficacia (servizio clienti). Grazie all’IoT, spiegano gli esperti degli Osservatori, è possibile ad esempio monitorare in tempo reale il funzionamento di un impianto produttivo, raccogliendo dati utili a introdurre nuove logiche di manutenzione predittiva per limitare i fermi di produzione. Non solo: qualora il guasto si verifichi lo stesso, la diagnosi dei dati raccolti consente comunque di agire più rapidamente del normale. Possibilità che aggiungono benzina nel motore dell’industria 4.0.
Il secondo campo d’azione riguarda la possibilità di creare nuove generazioni di prodotti e servizi, sfruttando i dati sull’utilizzo dei device smart da parte degli utenti nel processo di sviluppo delle versioni migliorative, riducendo i difetti ricorrenti e migliorando l’usabilità. Tramite sensori distribuiti all’interno dell’oggetto, per esempio, si può capire quali componenti si usurano o arrivano a rottura più facilmente. Oppure, nel caso dei servizi, orientare la ricerca e lo sviluppo sulle funzioni maggiormente utilizzate dagli utenti evitando sprechi di tempo in fase di progettazione.
Il terzo schema di valorizzazione riguarda sempre i prodotti e i servizi, ma con un focus specifico sulla personalizzazione. Un’attività resa più agevole dall’analisi dei dati raccolti, che aiutano a intercettare in modo mirato i bisogni della clientela. Ciò che avviene sul web tramite i cookie può avvenire anche nel mondo fisico, tramite lo studio dei big data raccolti dall’utilizzo dei dispositivi IoT. È il caso, ricorda il report, di una utility che sulla base dell’andamento dei consumi energetici di un’abitazione può fornire consigli utili agli utenti per evitare gli sprechi. Le esigenze del consumatore conquistano così il centro dell’offerta aziendale.
Un altro ambito di valorizzazione è quello relativo alla monetizzazione diretta dei dati. Un’azienda può infatti decidere di vendere le info raccolte a soggetti terzi, generando una nuova fonte di ricavi. Si tratta di individuare soggetti interessati, siano esse altre imprese provenienti anche da settori distanti o singoli sviluppatori intenzionati a commercializzare nuove applicazioni.
Il quinto e ultimo processo di valorizzazione si riferisce all’ambito advertising & commerce. Un po’ come avviene per la personalizzazione già citata, l’IoT offre la possibilità di ottenere dati utili per la creazione di campagne pubblicitarie mirate. Sono così le abitudini di interazione fra il consumatore e il dispositivo intelligente monitorate nel corso del tempo a guidare la promozione successiva del prodotto rinnovato.
La monetizzazione dei dati non decolla: pochi vantaggi percepiti dagli utenti
Bisogna sottolineare che questi schemi di estrazione di valore aggiunto dalle informazioni non sono ugualmente diffusi e maturi. Secondo le rilevazioni degli Osservatori Digital Innovation le strategie più diffuse sono quelle di ottimizzazione dei processi (75%) e di nuova generazione di prodotto e servizio (49%). Segue al terzo gradino del podio la personalizzazione (26%), mentre la monetizzazione dei dati e il canale advertising & commerce risultano ancora in una fase embrionale, con percentuali di utilizzo rispettivamente del 4 e del 2%.
Il motivo, spiega il report, risiede nella tradizionale riluttanza a cedere i propri dati personali a meno di ricevere vantaggi concreti. La maggiore sensibilità nei confronti dei temi della privacy ha amplificato questo sentimento, rendendo ancora più complicato per le aziende raccogliere le informazioni sulle abitudini dei consumatori. La sfida è rendere il vantaggio derivante dalla cessione dei dati manifesto e tangibile. La chiara percezione è già e sarà sempre la leva determinante per superare la reticenza degli utenti.