Più che un nastro d’asfalto steso in linea retta, la strada che sta gradualmente portando l’Europa, e quindi anche l’Italia, nell’era dello smart manufacturing sembra un sentiero tortuoso anche se lastricato. Tortuoso perché il mercato delle soluzioni IoT da una parte e il versante delle imprese (specialmente le PMI) dall’altra sono ancora lungi dal convergere e dall’identificare quel punto di contatto che può accendere la miccia della rivoluzione di cui tanto si parla. La verità è che manca una guida politica: a parte quello tedesco, pochi altri governi hanno avviato concrete politiche industriali tese alla digitalizzazione di asset e processi. Ma il sentiero è anche lastricato, perché le tecnologie, gli standard e gli approcci che afferiscono al nascente ma già esteso verticale dell’Industry 4.0 sono estremamente differenti, e nonostante questo destinati a integrarsi e a funzionare in cornici operative e di cybersecurity da definirsi con altrettanto estrema accuratezza. Dunque, anche auspicando il rapido sviluppo di un libero mercato in cui la concorrenza stimoli innovazione e accessibilità all’offerta, l’iniziativa istituzionale, con precisi programmi di incentivazione e indirizzo degli sforzi privati, sembra imprescindibile.
Lo stallo italiano, tra politica e mondo produttivo
In Italia questo sentiero si è interrotto più volte. Le dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi sono state solo uno dei punti di discontinuità di una roadmap che avrebbe dovuto prendere il via già dal 2015. Stefano Firpo, direttore generale per la Politica industriale, la competitività e le Pmi del Mise aveva annunciato dalle colonne di CorCom la pubblicazione entro luglio di quell’anno di una prima bozza del position paper sui temi di industria 4.0 da mettere in consultazione di cui però non si più parlato né durante il summit di Venaria di novembre, né agli Stati generali dell’Industria di febbraio né in occasione della visita a Roma, lo scorso 18 marzo, del commissario europeo per l’Economia e le società digitali Gunther Oettinger. Lo stesso Firpo, commentando la Legge di Stabilità con un articolo apparso a gennaio su Agendadigitale.eu, ha ammesso che il nostro Paese sta «clamorosamente perdendo» la sfida della produttività, aggiungendo che «per cogliere le prime opportunità della trasformazione digitale del nostro manifatturiero, nel prossimo quinquennio, saranno necessari almeno dieci miliardi di euro di investimenti annui aggiuntivi. In teoria non sono tantissimi ma, visto il vero e proprio sciopero degli investimenti che ha caratterizzato e sembra continuare a caratterizzare il recente passato e il presente del nostro Paese, in realtà costituiscono una cifra davvero sfidante. A questi», continua Firpo, «vanno aggiunti gli investimenti per accelerare l’infrastrutturazione a banda ultra larga nelle aree a maggior intensità industriale». Il dirigente del Mise ha anche sottolineato che i capi-filiera e le aziende pivot che possono utilizzare le tecnologie digitali per muovere gli investimenti, integrando e consolidando le filiere di riferimento, dovranno ricoprire in questa prospettiva un ruolo cruciale.
Secondo il presidente dell’associazione IBAN (Italian Business Angels Network) Paolo Anselmo, anche lui entrato nel dibattito sulle pagine di Agendadigitale.eu, per dare una spinta sostanziale allo smart manufacturing in Italia servono inoltre strumenti normativi che favoriscano il contatto tra piccola impresa e startup. Più nello specifico, Anselmo sostiene che lo Stato dovrebbe «dare un riconoscimento giuridico alla professione di Business Angel in modo da avvicinare imprenditori, ex imprenditori e manager a questo mondo, mettere in connessione il mondo delle PMI e delle grandi Imprese con il sistema delle startup e dell’innovazione, incentivare infine gli investimenti creando un mercato secondario che coinvolga società e fondi di investimento più grandi».
Un atteso spartiacque potrebbe essere l’arrivo di Vincenzo Boccia ai vertici di Confindustria. Il passaggio di consegne con Giorgio Squinzi è cronaca delle scorse settimane, e nonostante il neo presidente non abbia ancora affrontato in maniera diretta il tema dello smart manufacturing, durante la campagna elettorale Boccia ha più volte espresso il proprio punto di vista sul da farsi: «L’unica strada che abbiamo per difenderci dalla concorrenza dei Paesi a basso costo di manodopera è quella di puntare su produzioni ad alto valore aggiunto, investendo in tecnologia e innovazione», ha dichiarato Boccia. «I driver sono prima di tutto le infrastrutture, materiali e immateriali. E un piano strategico nazionale per le tecnologie digitali».
Il punto di vista dell’Associazione degli industriali è stato comunque ribadito da Gianni Potti, presidente del comitato nazionale di coordinamento territoriale di Confindustria servizi innovativi e tecnologici: «Nell’ultimo anno è stata fatta tanta strada. Se all’inizio su questa materia eravamo profeti, e in pochi ci ascoltavano, negli ultimi tempi il tema di Industry 4.0 è entrato nelle agende della politica, senza dimenticare che sia l’ex presidente uscente di Confindustria Squinzi che il neo eletto Boccia su questi temi hanno dimostrato impegno e sensibilità».
All’atto pratico, una delle poche vere iniziative che incentivano l’innovazione è l’introduzione (con la Legge di Stabilità 2015) del cosiddetto Patent box, uno strumento fiscale che coinvolge gli investimenti in brevetti, know how e beni immateriali, premiando le aziende che utilizzano ricerca e sviluppo, anche tramite acquisizioni e collaborazioni esterne, come una leva strategica all’interno di programmi di crescita pluriennali. Nel 2015, secondo ANIE, sono state più di 4 mila le organizzazioni che hanno avanzato richiesta per accedere alle agevolazioni.
Il piano europeo da 50 miliardi di euro
La vera svolta potrebbe arrivare grazie all’intervento dell’Unione europea, che ha appena varato un piano da 50 miliardi di euro per la digitalizzazione dell’industria e dei servizi ancillari su tutti i 28 Stati membri (spiegato nei dettagli da CorCom), con l’obiettivo per l’appunto di promuovere gli investimenti congiunti tra settori diversi attraverso partnership strategiche e reti di impresa. L’orizzonte temporale è quello del 2020, l’ambito d’azione il Digital Single Market (che comprende quindi anche il mondo dell’e-government), mentre le tecnologie che fungeranno da pilastri sono il Cloud, il 5G, l’Internet of Things, i Big data e la Cyber security, da mettere in relazione attraverso standard comuni anche nella prospettiva di progetti per l’Industria 4.0.
In particolare, la Commissione Europea ha dato il via libera per la creazione di un ecosistema Cloud dedicato al mondo accademico e alla ricerca, che coinvolgerà in tutto il Vecchio continente 1,7 milioni di addetti ai lavori e circa 70 milioni di soggetti direttamente e indirettamente connessi ai temi tecnologici. Sul piatto ci sono oltre 50 miliardi di euro. Per l’Innovazione digitale sono previsti investimenti per 37 miliardi di euro (con 22 miliardi dedicati alle partnership pubblico-private), mentre gli innovation hub, finalizzati a creare o potenziare centri di ricerca, incoraggiandone il contatto con l’industria e la PMI, assorbiranno 5,5 miliardi di euro. Naturalmente tutti questi progetti necessitano di una base hardware consistente: se dunque per la produzione di componenti elettronici è previsto un budget da 6,3 miliardi di euro, per la realizzazione della European Cloud iniziative – la nuova infrastruttura Cloud dedicata – si parla di un accantonamento da 6,7 miliardi di euro.
Nel piano della Commissione, un approccio comune di così ampio respiro dovrebbe spingere i processi di digitalizzazione mettendo in moto una potenziale crescita annua del fatturato pari a 110 miliardi di euro. Perché un progetto tanto ambizioso abbia successo, sarà però necessario operare su almeno sei leve strategiche, a cui corrispondono altrettanti task:
favorire il coordinamento di iniziative nazionali o regionali in ambito smart manufacturing;
focalizzare gli investimenti nelle partnership pubblico-private grazie ai fondi messi a disposizione dalla Ue;
sostenere economicamente i digital innovation hub per diffondere l’utilizzo di tecnologie digitali;
mettere a punto progetti pilota sull’Internet of things, la manifattura avanzata e le tecnologie per le smart city e la smart home;
adottare norme orientate al futuro che consentano la libera circolazione dei dati generati da sensori e smart device, aggiornandole anche rispetto ai temi della data protection;
definire un’agenda europea delle competenze digitali che aiuti i cittadini ad avere un quadro chiaro di quali siano i requisiti richiesti dal mondo del lavoro nell’era digitale.
Seguendo queste linee guida dovrebbe essere possibile indirizzare lo scenario ipotizzato da Boston Consulting Group e ripreso da Gianni Potti in un intervento su Agendadigitale.eu in cui il dirigente di Confindustria si è soffermato sulla centralità delle risorse umane nella Fabbrica 4.0 in Europa e in Italia. «Gli incrementi di produttività sul costo di trasformazione per tutto il comparto manifatturiero tedesco sono stimati in una forchetta compresa fra il 15 e il 25%», scrive Potti. Considerando il costo complessivo di produzione, gli aumenti di produttività sono stimati intorno al 5-8%, equivalenti a 90-150 miliardi di euro (al netto degli investimenti necessari per ottenerli). La crescita dell’economia tedesca porterà alla creazione nell’industria di circa 400 mila nuovi posti di lavoro». Secondo BCG, un andamento simile potrebbe verificarsi anche in Italia, «stimando lungo lo stesso arco temporale almeno 200 mila nuovi occupati nel nostro Paese», rimarca Potti. «Tuttavia a questo saldo positivo degli occupati si prevede una profonda modifica della geografia del mercato del lavoro. Cambieranno i tipi di lavoro e i profili richiesti, diminuiranno le richieste di lavoro manuale poco qualificato mentre aumenteranno – a detta di BCG – le richieste di figure professionali qualificate, quali programmatori, sviluppatori di software o specialisti di meccatronica per il mondo Industry 4.0. E qui», conclude Potti, «si apre il grande capitolo dell’urgenza nel formare nuove figure professionali, adattando il nostro sistema educativo, sia nella sua offerta di percorsi formativi, sia nelle metodologie di apprendimento, sin dalle prime classi».