C’è il rischio che venga compromesso il futuro di lungo periodo per la banda larga mobile, a causa di un atto di governo dei giorni scorsi: quello di assegnare 19 frequenze alle tv per 20 anni (tra cui quattro a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia Media).
L’allarme arriva non solo da alcuni politici (Pd, Udc, Radicali, Idv), ma anche da Antonio Sassano, docente della Sapienza e uno dei massimi esperti di frequenze in Italia (è considerato il padre dell’attuale piano frequenze in vigore).
Per capire il nodo della questione bisogna ricordare che fin dal 2007 l’Itu (l’agenzia Onu delle tlc) ha chiesto di destinare alla banda larga mobile un crescente numero di frequenze tratte dallo spettro finora utilizzato dalle tivù (700 e 800 Mhz). L’idea di fondo è che sono frequenze pregiate, che meglio servirebbero a raggiungere i cellulari piuttosto che le tivù; e che la banda larga mobile è abilitatore di crescita economica molto più della tivù (come rilevato da una grande mole di studi, della Commissione europea e da World Bank, per esempio). Gli Stati Uniti, la Germania, il Nord Europa e alcuni Paesi asiatici si sono già affrettati a seguire questa strada.
Ultimo atto, quest’anno: l’Itu ha stabilito che dal 2015 le frequenze a 700 MHz dovranno essere disponibili anche per internet a banda larga e non solo per la tv. Formalmente questa decisione dell’Itu non obbliga i Paesi a togliere risorse alle tv, per ora, ma è una premessa perché si vada in quella direzione.
«Tra pochi anni, l’Itu stabilirà che nella banda 700 MHz deve esserci solo la banda larga. È accaduto lo stesso, infatti, per le frequenze a 800 MHz, appunto su pressione dell’Itu», spiega Sassano. Per ora c’è una proposta del Parlamento europeo a fare in questo modo. Le istituzioni Ue chiedono inoltre che i Paesi liberino almeno 1.200 MHz entro il 2015. I Paesi del Nord Africa hanno deciso di usare già nel 2015 la banda 700 MHz per le reti mobili di quarta generazione (4G).
I prossimi passi in Italia, in tal senso, saranno i seguenti, obbligatoriamente: per prima cosa la nuova Agcom dovrà stabilire un nuovo piano frequenze che tenga conto dell’esigenza di liberare i 700 MHz (come del resto già indicato dalla norma di aprile sulla delega fiscale, che istituisce un’asta per assegnare altre sei frequenze al digitale terrestre; il cosiddetto “ex beauty contest”). Poi bisognerà stabilire le regole per coordinare l’uso delle frequenze da parte delle tv e degli operatori mobili nei Paesi confinanti. Il tutto mentre anche le istituzioni europee svilupperanno una roadmap di migrazione per i 700 Mhz. Il timore è che, in questo percorso inevitabile, l’assegnazione ventennale risulti un’ingessatura che ostacolerà o rallenterà il processo.
È vero che il ministero allo Sviluppo Economico ha imposto una certa flessibilità a quest’assegnazione, indicando che alle emittenti potranno essere date anche frequenze equivalenti. Ma al momento non è chiaro quali possano essere, visto che lo spettro è già saturo, come rileva Sassano.
Sembra quindi che l’unica via con cui lo Stato potrà tirarsi d’impaccio, da qui al 2015, sarà dare un indennizzo alle emittenti tivù in cambio delle frequenze ora assegnate e da liberare per la banda larga mobile. Insomma, la stessa cosa che è avvenuta per gli 800 MHz, cioè i canali 61-69 assegnati all’asta per il 4G, i quali però devono essere ancora liberati dalle emittenti locali (hanno tempo fino a dicembre). Certo è che l’Italia non può permettersi ritardi nel mettere a disposizione nuove frequenze per la banda larga (800 Mhz ora, 700 Mhz in futuro), visto che le altre economie andranno avanti spedite in questo processo. Meno banda larga significa aziende meno competitive: è questo il rischio che si sta affrontando ora.
di Alessandro Longo
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