Direttore per oltre un decennio di Wired Magazine, la più nota rivista di divulgazione tecnologica, Chris Anderson è diventato famoso nel 2004 grazie al best seller “The Long Tail”, che parla dell’importanza economica, nell’era di internet, delle nicchie di domanda. Nel novembre 2012 però Anderson ha lasciato la direzione di Wired e il mestiere di giornalista per dedicarsi a tempo pieno a 3D Robotics, impresa specializzata nella produzione di droni, che ha fondato nel 2009 e di cui è CEO.
I droni sono piccoli velivoli ed elicotteri multirotore senza pilota, telecomandati per scattare foto e girare video a scopi civili, utilizzati in molti settori: TV e compagnie cinematografiche, forze dell’ordine, protezione civile, trasporti e logistica, agricoltura, per citarne alcuni. I droni sono in piena diffusione: la Federal Aviation Administration stima che per il 2020 nei soli cieli degli Stati Uniti voleranno oltre 30mila droni di aziende ed enti pubblici, senza contare quelli dei privati. Grazie all’evoluzione tecnologica infatti questi prodotti, che fino a pochi anni fa erano costosissimi, e spesso addirittura segreti militari, ora sono costruibili da qualsiasi appassionato.
Al di là delle prospettive commerciali e della stessa notorietà di Anderson, però, 3D Robotics ha attirato l’attenzione e i finanziamenti di diversi fondi d’investimento (finora 35 milioni di dollari in varie tranche) anche per il modello di produzione e di supply chain management, basato su una doppia location in due Paesi completamente diversi, ma a soli 20 minuti d’auto di distanza: la ricerca e sviluppo infatti è a San Diego (California), il montaggio a Tijuana, in Messico.
Un modello che secondo Anderson è in grado di affrontare efficacemente la concorrenza dei principali concorrenti di 3D Robotics, che sono cinesi. Molti americani ed europei pensano al Messico come una terra di cartelli della droga, tequila e paesaggi da cartolina, ma la realtà è ben diversa: nei dintorni di Tijuana e in generale nel nord del Messico sono assemblati moltissimi dei prodotti venduti negli USA, per esempio le TV di Samsung e Sony, ma anche computer, apparecchi medicali, componenti di aerei e di automobili.
Un modello concettualmente riproducibile anche in Europa
«I beni manifatturieri sono la prima voce di export del Messico, e gli investimenti esteri in questo campo sono tra i più alti al mondo», scrive Anderson in un articolo sul New York Times. Ma non solo: il Messico laurea ogni anno 115mila ingegneri, il triplo degli USA in termini di ingegneri per abitante, e alcune competenze specialistiche sono più facili da trovare a Tijuana che in molte grandi città degli Stati Uniti.
«Facendo la spola tra i nostri siti a San Diego e Tijuana – se si viaggia per affari non c’è bisogno di passaporto, si circola liberamente come nell’Unione Europea, e molti nostri dipendenti fanno i pendolari tutti i giorni – mi è venuta in mente una situazione simile che ho vissuto una dozzina di anni fa, quando ero corrispondente a Hong Kong dell’Economist», scrive Anderson. «Allora Hong Kong e Shenzhen in Cina costituivano un formidabile “hub manifatturiero” che lavorava per tutto il mondo, con il business, la finanza e il design a Hong Kong, e la produzione e l’assemblaggio a Shenzhen: oggi ciò che Shenzhen era per Hong Kong, Tijuana lo sta diventando per San Diego».
In altre parole il modello San Diego-Tijuana, continua l’imprenditore e scrittore americano, può essere la risposta che le aziende manifatturiere degli USA e degli altri Paesi avanzati stanno cercando da anni per rispondere all’attacco di Cina, India e altri Paesi, basato su grandi disponibilità di lavoro a basso costo e di bravi ingegneri. Un modello concettualmente ripetibile anche in Europa, nei Paesi a cavallo della vecchia “cortina di ferro” (il confine fra il blocco occidentale-capitalista e quello orientale-ex comunista), che Anderson definisce “quicksourcing” e che esalta i benefici delle supply chain “corte”.
Supply Chain “corte”: meno costose e rischiose, più veloci e innovative
Prima di tutto una supply chain corta permette di produrre solo ciò di cui si ha bisogno, e solo quando se ne ha bisogno. «Quando 3D Robotics ha iniziato a operare facevamo produrre tutto in Cina: dovevamo fare ordini di migliaia di pezzi per ottenere buoni prezzi, e staccare assegni per grosse cifre, di cui vedevamo il ritorno magari un anno dopo o ancora più in là, quando concludevamo la vendita dei prodotti finiti che contenevano quei componenti. Adesso ogni settimana produciamo solo gli ordini ricevuti per quella settimana».
Secondo: una supply chain corta riduce i rischi. Un errore nella progettazione “costa” al massimo pochi giorni di produzione, e un difetto nel processo d’assemblaggio si può rilevare subito. Le scorte di componenti sono a portata di mano e controllabili direttamente, per sapere cosa esattamente va a costituire il prodotto finito ed evitare di inserire parti usate o diverse dalle specifiche. «E si può proteggere la propria proprietà intellettuale senza dover sperare che terze parti antepongano i nostri interessi a quelli di altri, senza contare i rischi politici, ambientali o di relazione di cui realtà come Apple o Wal Mart in Cina hanno sperimentato nel modo peggiore l’entità dei possibili impatti».
Il terzo vantaggio della supply chain corta è ancora più evidente: è più veloce. «Ordiniamo ancora alcune componenti in Cina ma, anche se usiamo FedEx, ci arrivano con settimane, e a volte mesi di ritardo», spiega Anderson. E non è un problema specifico della Cina: «È semplicemente intrinseco di una relazione da una parte all’altra del mondo tra un piccolo cliente e un grande fornitore: se fossimo Apple avremmo la consegna entro la giornata, ma siamo piccoli, e quindi aspettiamo».
Infine una supply chain corta stimola l’innovazione. Se si cede in outsourcing la fabbricazione di molte componenti di un prodotto, non si può cambiare quel prodotto liberamente fino a quando non sono finiti i componenti relativi a questi accordi. «Se invece hai sotto controllo diretto tutto il processo di sviluppo e produzione, puoi cambiare il prodotto in qualunque momento, che sia per usare un nuovo componente che costa meno o per migliorare il design».
Infine un ulteriore fattore a favore del “quicksourcing”, conclude Anderson, è che i costi del lavoro in Cina sono più che triplicati negli ultimi dieci anni, e le paghe nel Sud del Paese sono arrivate a 6 dollari l’ora, più o meno ai livelli del Messico. «Nello scenario del manufacturing che si sta profilando, non ci sarà più bisogno di andare tanto lontano».