Analisi e indagini di mercato sono unanimi nel sancire che gli utenti di smartphone e tablet hanno sempre più spesso gli occhi fissi sui loro device, anche quando camminano per strada o sono a casa davanti alla TV. L’attenzione dei consumatori quindi sta privilegiando sempre più i mobile device rispetto a media più tradizionali come carta stampata e appunto TV.
E naturalmente gli investimenti pubblicitari seguono questa tendenza: secondo il “Global entertainment and media outlook 2014-2018” di PwC, nei prossimi cinque anni il Mobile Advertising crescerà mediamente del 21,5% all’anno. Tutto ciò, sottolinea Colin Light, Partner di PwC China, in un post sul blog del sito del colosso della consulenza, comporta qualcosa di più di una transizione da un media all’altro degli utilizzi e dei fatturati pubblicitari. Cambia anche radicalmente la capacità degli inserzionisti di misurare l’efficacia e i ritorni dei messaggi, grazie alla possibilità di “ritagliarli” sul singolo consumatore, e di avere un feedback istantaneo di come questo reagisce quando li riceve.
Per concretizzare questa rivoluzionaria opportunità però occorre gestire nel modo migliore le preoccupazioni sulla propria privacy di molti consumatori. Un problema questo che cresce man mano che le promozioni inviate sui device mobili si fanno individuali, personali, e quindi possono essere percepite come intrusive. Recentemente PwC ha effettuato un’indagine globale su migliaia di consumatori per capire quali dati sono disposti a condividere, e in che misura. Ne è emersa una gerarchia ben precisa, che parte dalle informazioni che pochissimi sono disposti a rendere pubblici, per esempio il numero di social security, e termina con quelle che invece molti comunicherebbero, in cambio di un adeguato “valore”, come il genere (maschio o femmina) o lo stato civile (sposato o no).
Più precisamente, secondo l’indagine “The New Digital Ecosystem Reality. Mobile Advertising Strategies for Increased Success” di PwC, tra l’81 e il 93% dei consumatori (la percentuale varia in funzione del Paese) è disposto a condividere genere e stato civile, tra il 53 e il 65% le preferenze su computer, programmi TV, giochi online, video eccetera. Tra il 41 e il 50% comunicherebbe i propri comportamenti d’acquisto online, ma anche nome, entrate familiari, data di nascita e indirizzo e-mail.
Tre su dieci sono disposti a far tracciare la propria posizione tramite il GPS dello smartphone, e anche il proprio curriculum lavorativo. Scendendo ancora verso le informazioni ritenute più sensibili, solo l’11-17% dei consumatori accetterebbe di condividere la propria cronologia di navigazione sul web, il numero di cellulare, i messaggi in chat e SMS, e la propria cartella medica; il 4-7% la cronologia delle chiamate telefoniche, i contatti telefonici ed e-mail, e le password dei social network; e infine solo 3 su 100 il numero di social security, che negli USA è praticamente una “carta d’identità” in formato numerico che serve per tutti i rapporti con la pubblica amministrazione e i datori di lavoro.
Tuttavia tra quello che i consumatori dicono e quello che fanno spesso ci sono delle interessanti contraddizioni. Per esempio il numero di quelli disposti a rendere noti i loro contatti telefonici è bassissimo, eppure diverse App di messaging di enorme successo chiedono proprio l’accesso a queste informazioni al momento della registrazione, e centinaia di milioni di persone hanno acconsentito.
Come si spiega questa anomalia? Secondo Light, molto dipende da come si formula la domanda. «Se si chiede ‘Accettereste di ricevere messaggi pubblicitari sul vostro cellulare tutti i giorni?’ Ovviamente la risposta sarebbe no, se invece si chiede ‘Accettereste di ricevere offerte location-based personalizzate e raccomandazioni di quali App stanno usando i vostri amici?’ La risposta sarà molto più probabilmente positiva».
Su questi presupposti, PwC suggerisce una strategia di Mobile Advertising basata su tre pilastri: coinvolgimento (Engagement), identificazione (Identity) e Insight. Il primo si costruisce offrendo ai clienti valore e una user experience superiore, attraverso offerte mirate che riflettono i loro interessi e il loro contesto di vita. Nel secondo caso il consumatore deve percepire che chi gli manda pubblicità lo conosce, e rispetta la sua privacy. Questo significa dargli la possibilità di accettare o rifiutare futuri invii (opt in/opt out), di decidere esplicitamente quali dati condividere e quali no, e di fidarsi sul fatto che l’inserzionista non userà informazioni che non è stato autorizzato a usare.
La parte Insight infine consiste nell’informare i consumatori sulle scelte fatte da persone simili a loro, e nel raccomandare prodotti e servizi che possono essere davvero utili per loro, creando opportunità sia di fatturato che di coinvolgimento e fidelizzazione. Questo, conclude Light, va dosato accuratamente, può accadere una volta al mese o cinque volte alla settimana, «ma comunque è molto apprezzato».