Il mercato delle App per dispositivi mobile è molto giovane ma già enorme, e la sua crescita continua a ritmi impressionanti. Sono passati meno di cinque anni da quando Apple con il suo App Store ha ‘aperto le danze’, ma a fine 2013 il mercato mondiale toccherà secondo Gartner i 25 miliardi di dollari, con una crescita che quest’anno sarà del 62%. Altri dati testimoniano di questa esplosione: all’inizio del 2010 l’App Store era saldamente il leader con 140mila App, oggi secondo ComScore il negozio di Apple ha più che quintuplicato il catalogo (800mila App), ma è insidiato da vicino da quello di Google (700mila), mentre anche gli inseguitori sono in decisa crescita, primi tra tutti Windows Phone Store (125mila), Amazon (70mila), BlackBerry e Nokia.
E intanto continuano a crescere il numero di utenti (Ovum si aspetta un miliardo di nuovi ‘mobile surfer’ entro il 2017, soprattutto in Asia e Africa), i dispositivi target (ora oltre a smartphone e tablet ci sono anche Smart TV e console) e le categorie di App: l’evoluzione tecnologica dei device consente applicazioni completamente nuove, pensiamo per esempio ai sensori e accelerometri che permettono di capire le velocità di spostamento e i movimenti di una persona. Qualche segnale di prima maturità sta emergendo. I gestori degli store hanno regole più selettive, e gli stessi sviluppatori sono più metodici sia riguardo alla scelta di poche App (le più promettenti), su cui concentrare gli sforzi. Per una Angry Birds o una Instagram che si afferma come business miliardario, centinaia di migliaia di App non arrivano ad apparire su un app store.
Facile fare un’App: il difficile è mantenerla
In termini di modelli di business per gli sviluppatori, però, le best practice consolidate sono ancora pochissime, e la battaglia per arrivare al numero di download necessari a rendere una App profittevole è sempre più dura, perché la concorrenza è ormai intensissima. Secondo Distimo, solo il 2% dei principali 250 sviluppatori sull’App Store è alla sua prima App pubblicata, e un dato molto simile (3%) si registra su Google Play.
Un’altra difficoltà è mantenere il cliente dopo averlo conquistato: il tasso di abbandono (churn) è molto alto. Secondo Flurry, società specializzata in tool di monitoraggio dell’uso delle App, solo il 35% delle App è ancora su un device 90 giorni dopo essere stata scaricata. Insomma, l’utente medio scarica diverse App d’istinto o quasi, attratto dall’innovatività, dall’interattività e dalla grafica, ma sono molte meno quelle che si rivelano utili quotidianamente. Per mantenere l’utente nel tempo, occorre fare App che si distinguono per utilità frequente, grafica, e facilità d’uso, e poi aggiornarle mantenendole attrattive, per esempio aggiungendo funzioni, o estendendone l’uso ad altre piattaforme mobile o dispositivi.
Alcuni sviluppatori stanno facendo scuola nel trovare flussi di entrate alternativi a quelli iniziali classici (pubblicità e acquisti della App sugli store). Shazam Entertainment per esempio ha lanciato la sua prima App di riconoscimento vocale e musicale sette anni fa, e ora ricava fatturato anche da licenze della sua tecnologia, e da accordi con gli operatori mobili. Altri invece semplicemente selezionano. Il Wall Street Journal cita per esempio il caso di ESPN, la TV sportiva di Walt Disney Co, che come racconta Michael Bayle, general manager mobile, ha dismesso 23 delle 30 App per iOS che aveva fatto sviluppare nel tempo, mantenendo solo le più popolari, tra cui ScoreCenter, che pubblica risultati di gare e campionati di vari sport in tutto il mondo. “E’ facile fare un’App, ma gran parte dei costi è nel mantenerla”, spiega Bayle.
Prezzi diversi per versioni diverse
Un’ulteriore tendenza molto interessante riguardo alla sostenibilità nel tempo del ‘business App’ è la strategia sempre più diffusa di usare politiche di pricing diverse per versioni diverse su Store diversi. Uno dei casi più eclatanti è SoundHound, altra App di riconoscimento musicale, che sul Windows Phone Store è gratuita, mentre costa 6,99 dollari sull’App Store, e 5,99 su Google Play. In generale gran parte delle App resta gratuita – lo è metà di quelle sullo store di Apple e il 75% di quelle su Google Play -, anche perché molti ormai propongono gratuitamente una versione base della App per massimizzare gli utenti, sperando poi che molti di loro optino per l’in-app purchase (download a pagamento di versioni più ricche e potenti, nuovi livelli per i giochi, contenuti e servizi complementari).
Quando invece si tratta di pagare emergono propensioni leggermente diverse su Store diversi. A fine 2012 secondo la società di ricerca Distimo, il prezzo medio di un’App per iPhone sull’App Store era di 3,18 dollari, mentre era di 3,06 dollari sul Google Play e di 2,84 dollari sullo store di Amazon. Dati che rispecchiano i fatto che gli utenti iOS sembrano più propensi a pagare, sia per il semplice download iniziale (App Premium), sia per l’in-app purchase. D’altra parte il prezzo medio degli smartphone Android è decisamente più basso di quello degli iPhone, e quindi si suppone che l’utente medio di Google Play abbia una capacità di spesa più bassa dell’utente medio di App Store.
Pubblicità ‘inside’: sì o no?
Il WSJ cita il caso di Ndemic Creations, che offre il suo strategy game Plague a 0,99 dollari su App Store, e gratis su Google Play. Risultato: 4 milioni di download su App Store, e 5 milioni su Google Play. “Gli utenti di Google Play pagano meno volentieri per il download iniziale, ma il tasso di conversione dalla versione gratuita a quella a pagamento è estremamente alto”, spiega il CEO di Ndemic, James Vaughan.
Una variante di questo schema è la variazione del prezzo nel tempo, fino a trovare il giusto equilibrio tra numero di download e profitto, mentre alcuni sviluppatori stanno testando sullo store di Amazon la proposizione per la stessa App di prezzi diversi a utenti diversi, raccogliendo così dati estremamente utili sul comportamento e la propensione di spesa.
Un fattore determinante nel pricing delle App è ovviamente la pubblicità. Una App ‘Premium’ generalmente è priva di pubblicità, ma questo significa incassare solo una volta, all’atto dell’acquisto: perciò alcuni sviluppatori preferiscono mantenere ‘free’ la loro App e corredarla di pubblicità che assicurano flussi di entrata continui nel tempo. Un problema che però può sorgere con la strategia di differenziazione dei prezzi è quello di confondere l’utente, e magari anche contrariarlo, sottolinea Sarah Rotman Epps di Forrester Research. Gli sviluppatori quindi devono essere estremamente trasparenti e chiari nella spiegazione delle tariffe, perché il consumatore non deve pensare di essere ‘punito’ per aver scelto un device piuttosto che un altro.