Non c’è bisogno di scomodare i sociologhi per capire che
le modalità di lavoro, nella gran parte delle professioni, sono
profondamente cambiate nell’arco di pochi anni. E che la
più importante leva del cambiamento, con il diffondersi
dell’economia della conoscenza e del knowledge work, è la
diffusione ormai capillare della tecnologia digitale, che con gli
smartphone, i tablet e i notebook ci accompagna in ogni momento
della giornata.
È una spinta che arriva dal basso e che ha il potere di
abbattere le barriere del tempo e dello spazio, liberando i
lavoratori dai vincoli che in passato hanno tenuto rigidamente
separate la vita privata e quella professionale. A vantaggio di
tutti, ma con effetti più marcati sui comportamenti delle donne
e dei giovani nativi digitali.
Per le imprese, affrontare e gestire questo cambiamento è una
grande occasione per liberare energia creativa nelle persone e,
così, creare più valore: sempre più spesso, infatti, si
rivelano di successo proprio quelle organizzazioni che dimostrano
la loro capacità di abbandonare modelli ancorati al passato,
creando condizioni di lavoro che permettano di rispondere
contemporaneamente a nuovi obiettivi di business e alle esigenze
delle persone.
Ma non è un passaggio semplice, perché significa trasformare
stili di lavoro consolidati nel tempo, e quindi policy
organizzative, cultura del top management e in definitiva i
comportamenti e le abitudini.
La School of Management
del Politecnico di Milano ha provato a tracciare un quadro
della situazione italiana, coinvolgendo oltre 200 tra C-Level e
Executive IT, HR e delle principali Line of Business delle
principali imprese operanti in Italia, focalizzandosi in
particolare su tre aspetti che, insieme, definiscono il profilo
del cosiddetto “Smart Working”: l’emergere di
nuove modalità di lavoro basate sulla flessibilità dello spazio
e dell’orario di lavoro, il supporto dato dagli strumenti
ICT e il cambiamento degli spazi fisici all’interno delle
imprese, per supportare al meglio l’evoluzione
organizzativa.
Quello che emerge è che nel nostro Paese ci sono sì esempi
virtuosi, che confermano in pieno il successo di un approccio
innovativo, ma nella maggior parte dei casi esaminati i modelli
di organizzazione del lavoro restano ancora ingessati in schemi
ormai obsoleti, che non prendono cioè i considerazione principi
quali la collaborazione, l’autonomia e la flessibilità
nella scelta degli spazi e delle metodologie di lavoro, la
valorizzazione dei talenti, la responsabilità e
l’innovazione diffusa.
Nonostante l’ampia disponibilità di tecnologie ICT, dalla
ricerca emerge che oggi solo il 5% dei lavoratori italiani può
essere definito “Smart Worker”.
Eppure, è proprio da queste persone che potrebbe arrivare
quell’energia necessaria per spingere la crescita economica
e culturale dell’Italia. Si stima, infatti, che
l’adozione massiccia di modelli di Smart Working porterebbe
consistenti benefici per il Sistema Paese: a fronte di un aumento
di produttività medio del 25% per lavoratore, si avrebbe un
beneficio in termini di costo del lavoro per 1,7 miliardi di
euro, risparmio di tempo e denaro per i dipendenti, riduzione di
emissioni CO2.
L’innovazione del lavoro può dunque dare un grande
contributo per migliorare la competitività, la produttività e
la capacità di innovazione delle imprese e delle Pubbliche
Amministrazioni. E chi lo ha già fatto, può confermare non solo
che è possibile, ma soprattutto che i risultati positivi sono
evidenti.