Comunque lo si chiami – smart working, modern workplace, lavoro agile – è da tempo al centro dell’attenzione delle organizzazioni di tutte le dimensioni e trasversalmente a tutti i settori produttivi.
Nel maggio dello scorso anno, poi, l’approvazione della legge sul lavoro Agile (n. 81/2017) ha dato nuovo impulso al tema, trasformando iniziative poco strutturate, volontaristiche, informali, a volte anche un po’ disordinate, in progetti strutturati e gestiti.
Smart working: partire da ciò che non è
Progetti necessari, soprattutto perché in questi anni lo smart working si è troppo spesso nutrito di falsi miti e di equivoci.
A cominciare dal fatto che smart working non significa “lavorare da casa”. Il lavoro è qualcosa che si fa, non un luogo in cui ci si trova.
Probabilmente questo è il falso mito più diffuso quando si parla di smart working, cui si associano poi tutta una serie di riserve sulla sicurezza, sulla produttività e persino sugli impatti che una modalità di lavoro agile possa avere sul cosiddetto work-life balance.
Fino ad arrivare ad una altrettanto erronea concezione di uno smart working eccessivamente oneroso anche in termini economici e dunque alla portata delle sole grandi organizzazioni.
Lo scenario italiano secondo l’Osservatorio Smart Working
Qualcosa sta cambiando e lo dimostrano i dati più recenti dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, secondo il quale rispetto all’anno precedente il numero degli smart worker in Italia è cresciuto del 20 per cento: è dunque un fenomeno che tocca 480.000 lavoratori, che corrispondono al 12,6 per cento rispetto al totale degli occupati.
È vero, è al momento un fenomeno che sembra interessare maggiormente le grandi organizzazioni: dalla rilevazione dell’Osservatorio emerge infatti che il 56 per cento delle grandi imprese ha progetti strutturati di smart working, con un bell’incremento rispetto al 36 per cento dell’anno precedente, e chi ancora non è partito è comunque interessato al fenomeno.
Più contenuta è la penetrazione nelle piccole e medie imprese, nelle quali i progetti di smart working riguardano il 24 per cento delle realtà contro il 22 per cento dello scorso anno. Va detto, e questo è forse l’aspetto più critico da sottolineare, che tra le PMI è elevato il numero di realtà che ancora oggi si dichiarano disinteressate all’introduzione dello smart working: secondo gli analisti dell’Osservatorio le iniziative di sensibilizzazione e di formazione sul tema sono state finora molto limitate per innescare un circolo virtuoso, anche se il Voucher per la digitalizzazione delle PMI (ne abbiamo parlato in questo articolo) ha probabilmente aiutato le aziende che lo hanno richiesto a finanziare anche le azioni di introduzione dello Smart Working.
Un approccio strutturato
Alla luce di tutte queste considerazioni, ben venga un approccio più strutturato allo smart working, che tenga effettivamente conto di un insieme di fattori fisici, tecnologici, organizzativi che richiedono di essere affrontati in modo coerente e integrato.
In questa accezione, dunque, lo smart working significa in primo luogo un ripensamento, una ri-progettazione dei contenuti del lavoro stesso, secondo modalità che superano i concetti di luogo e di orario per focalizzarsi maggiormente sugli obiettivi e sul loro raggiungimento, in una logica di sempre crescente responsabilizzazione del lavoratore.
Significa focalizzare l’attenzione sui risultati e sugli obiettivi facendo leva su aspetti organizzativi, in particolare su flessibilità, autonomia, collaborazione, sugli strumenti e sugli spazi, in una logica di “continuous improvement”, miglioramento continuo.
Quattro livelli di intervento
Secondo l’Osservatorio Smart Working, quando si affronta un progetto di smart working è necessario lavorare su quattro livelli diversi.
Il primo livello è quello organizzativo, dunque con un focus sul tema della flessibilità rispetto agli orari e ai luoghi.
Il secondo è quello più prettamente fisico, vale a dire il ripensamento degli spazi in funzione sia delle nuove modalità operative, sia di una maggiore attenzione al benessere delle persone.
Il terzo è quello tecnologico, vale a dire gli strumenti e le tecnologie digitali che supportano il lavoratore e facilitano la comunicazione e l’interazione sia all’interno sia all’esterno dell’organizzazione.
Il quarto aspetto, sottolinea ancora l’Osservatorio, riguarda i comportamenti delle persone e gli stili di leadership e dunque tocca gli aspetti culturali sia dei lavoratori sia dei manager.
Stiamo dunque parlando di un approccio strutturato, che richiede metodo, anche perché, come è facile intuire, nessuna azienda parte da zero e deve fare i conti con la propria organizzazione, con il proprio mercato, con la propria infrastruttura e con le proprie practice.
Partire dall’assessment
Per questo è necessaria una prima fase di assessment che identifichi i bisogni, le aspettative, i limiti e le possibili barriere. In questo caso potrebbe servire anche la realizzazione di un indice di “readiness”, per comprendere quanto i dipendenti e il management team sono pronti sia al cambiamento culturale sia all’utilizzo di nuovi strumenti e servizi.
Da questa fase di assessment può scaturire una proposta di introduzione graduale di metodologie di lavoro agili, per dipartimenti, line of business o per procedure.
Tanto più il progetto è strutturato, tanto più importante è capire chi coinvolgere nel suo sviluppo.
Dall’analisi dell’Osservatorio, nelle grandi aziende si tende a dare in capo lo sviluppo del progetto di smart working alla direzione HR. Nondimeno, direzione IT e top management sono generalmente coinvolti.
Nei progetti più consistenti, entra in gioco anche il facility manager, cui è affidato il compito di ripensare gli spazi, in funzione delle nuove modalità operative, sempre più spesso orientate alla collaborazione.
Di questo e molto altro si discuterà all’evento del 22 novembre “Vieni a vivere la Collaboration che migliora il modo di lavorare”; tra gli speaker Mariano Corso (Responsabile Scientifico Osservatorio Smart Working,
School of Management Politecnico di Milano).