Quando un’azienda si mette un dispositivo hardware in casa, di qualunque tipo esso sia, è ovviamente interessata a conoscerne il suo grado di affidabilità. A partire, innanzitutto dalla sua vita utile, che ha un’incidenza non di poco conto sul ritorno dall’investimento e non solo. Dunque, prima della loro commercializzazione, i prodotti sono in genere sottoposti a test accurati che permettono di rilevare queste e altre caratteristiche, in particolare quella che in inglese viene definita con l’acronimo MTPB (Mean time beetween Failure rating), che in buona sostanza il valore medio del tempo atteso tra i guasti.
Perchè UPS e MTBF non vanno d’accordo
Questo tipo di impostazione, però, non può essere applicata così facilmente nel caso degli Uninterruptible Power Supply (UPS), vale a dire i gruppi di continuità elettrici. Come infatti spiega un vendor di questo mercato, Schneider Electric, il problema principale è l’assenza di uno standard universale e accettato per misurare il MTBF in un UPS. Il risultato è che ogni vendor potrebbe essere libero di pubblicare i suoi numeri sul MTBF, ma la mancanza di un vero e proprio parametro di riferimento rende difficile confutare o confrontare i numeri. Generando così un’estrema confusione che va a tutto svantaggio dei clienti finali, impossibilitati a prendere decisioni razionali. Per misurare l’affidabilità degli uninterruptible power supply un’alternativa potrebbe essere quella di utilizzare numeri reali, basati sui guasti nel periodo in garanzia su una determinata base di clienti. Ma anche questo approccio ha i suoi limiti, perché spesso il guasto ha a che fare con un problema che è fuori dal controllo del produttore degli UPS.
Il problema batterie per i gruppi di continuità
Bisogna poi considerare il fatto che le due funzioni principali di un uninterruptible power supply sono la conversione di potenza e l’accumulo di energia. Per quest’ultima operazione servono delle batterie, che nella maggioranza dei gruppi di continuità si basano principalmente sulle batterie al piombo acido. Che possono guastarsi per vari motivi, tra cui la bassa temperatura, l’eccessiva richiesta, il mancato mantenimento e semplicemente invecchiamento. La batteria potrebbe così guastarsi mentre il resto dell’apparecchio si potrebbe trovare in perfette condizioni, condizione che non consente di parlare di un vero e proprio guasto dell’UPS. Allo stesso modo, occorre considerare che gli UPS soggetti a condizioni ambientali estreme – calore, freddo, vibrazioni e polvere, ad esempio – rischiano di accusare più problemi di uno installato in un ambiente di ufficio o di un data center a temperatura controllata.
UPS, la centralità della progettazione
Tutto questo ha portato un’azienda come Schneider Electric a non divulgare più alcun numero relativo ai parametri MTBF per i suoi UPS, decidendo di puntare su tutto un altro approccio. Il modo individuato per garantire che i carichi critici abbiano sempre la protezione dell’alimentazione supplementare è progettare la distribuzione dell’UPS tenendo conto della ridondanza. L’idea è che anche se un UPS o uno dei suoi componenti dovesse guastarsi, un altro UPS o un componente alternativo debbano essere a disposizione per fornire la potenza necessaria per gestire il carico critico in questione. Una scelta in ottica di gestione del rischio che va adeguatamente presa in considerazione da ogni organizzazione in fase di progettazione. Esiste poi naturalmente un’altra possibilità per ridurre il pericolo guasti, ovvero l’utilizzo di batterie agli ioni di litio, che hanno all’incirca il doppio della durata di vita di quelle tradizionali al piombo e richiedono meno manutenzione. Possono inoltre offrire funzionalità di gestione da remota molto più accurate, permettendo di avvisare in tempo sulla presenza di eventuali problematiche. Insomma, più che guardare a numeri più o meno affidabili, quello che dovrebbe fare un’azienda è preoccuparsi della effettiva disponibilità di energia per i propri carichi critici, in modo da evitare sorprese indesiderate.