Negli ultimi anni il mercato Mobile ha visto il proliferare di svariati dispositivi indossabili, i cosiddetti “wearable”, collegati – tra loro, con una rete cellulare o uno smartphone – e intelligenti (o “smart”).
Nonostante nell’ultimo anno sia aumentata esponenzialmente l’attenzione mediatica su questi dispositivi, complice l’entrata nel mercato di Apple con il suo Apple Watch, i wearable non possono dirsi propriamente “agli albori”. Già nel 2008 Sony Ericsson aveva lanciato un orologio che mostrava l’identificativo del chiamante e i messaggi di testo in una linea nella parte bassa del quadrante; in seguito ci sono stati altri esempi di prototipi, alcuni dei quali sviluppati su piattaforma Arduino usando il display di un Nokia 3310.
Vero è che il mercato è effettivamente esploso nel 2012, quando Pebble ha lanciato, tramite il portale di finanziamenti online Kickstarter, il primo smartwatch: ovvero il primo orologio “smart” che, oltre a mostrare l’ora, dava la possibilità di leggere messaggi e notifiche ed era dotato di un open SDK che permetteva anche ad altri attori di sviluppare applicazioni specifiche. Dopo l’enorme successo – a dicembre 2014 è stato venduto il milionesimo smartwatch Pebble – al Mobile World Congress 2015 è stato lanciato PebbleTime Steel, un nuovo smartwatch con display a colori, corpo in metallo e autonomia di 10 giorni.
Resta però una domanda fondamentale di base: perché i consumatori hanno bisogno di uno smartwatch? Quando Pebble è stato lanciato su Kickstarter la promessa è stata quella di fare 4 cose: chiamate, email, sms e notifiche. E questo, secondo Eric Migicovsky, CEO e Founder di Pebble, è stato sufficiente per avere successo nella prima fase di questo mercato. Lo stesso Migicovsky sottolinea come l’obiettivo di uno smartwatch è (e deve essere) quello di aiutare le persone nel fare le cose, senza forzarle a cambiare le proprie abitudini: capire se si è in ritardo sul prossimo meeting, sapere se è stata ricevuta una notifica relativa a una comunicazione importante, semplicemente gettando una rapida occhiata al polso.
Dello stesso avviso è Gareth Jones, VP & GM di Fitbit – altra azienda specialista in dispositivi indossabili – secondo cui i wearable devono essere estremamente facili da utilizzare e, soprattutto, devono prescindere dal sistema operativo degli smartphone. Secondo Jones, per avere successo i dispositivi wearable devono offrire funzionalità e servizi aggiuntivi tali da supportare la vita di tutti i giorni e renderla migliore.
Anche Swarovski ha deciso di entrare in questo mercato, partendo dall’assunzione che il paradigma “one size fits all” non funziona. Secondo Joan Ng, Product Marketing Jewelley, Asia Pacific di Swarovski, gli attuali “fitness wearable” presenti sul mercato non rispondono puntualmente alle richieste del pubblico femminile; è stato quindi sviluppato un prodotto che possa meglio adattarsi alle diverse esigenze. Swarovski Shine, infatti, è un sensore elegante che può essere montato (o trasferito) su bracciali, pendenti, ecc. e può quindi essere indossato in diverse e molteplici occasioni d’uso, memorizzando i dati localmente e trasferendoli a uno smartphone tramite bluetooth.
Oltre a smartwatch, fitband e affini si stanno diffondendo anche soluzioni più complesse e innovative, come Muse, un elettroencefalografo portatile che analizza l’attività cerebrale e aiuta a migliorare la propria vita, offrendo applicazioni che, sulla base dell’analisi dei dati raccolti, propongono esercizi e attività specifiche per migliorare l’attenzione e ridurre i livelli di stress. Ariel Garten, CEO di InteraXon, evidenzia come questa soluzione sia adottata anche in ambito enterprise: alcune aziende stanno utilizzando Muse per aiutare i propri lavoratori, soprattutto knowledge worker, a gestire lo stress con l’obiettivo di migliorare la loro attenzione e, in ultimo, la loro produttività.
Gli utenti preferenziali in azienda: manutentori, knowledge worker e venditori
Proprio restando in ambito enterprise si trovano le principali sfide per questi dispositivi. Per Brent Blum, Wearable Technology Practice Leader di Accenture, le aziende stanno pensando a come sfruttare (e introdurre) i wearable device nei loro processi: dall’aumentare la sicurezza dei lavoratori nei processi di manutenzione, al fornire la possibilità ai knowledge worker di accedere ai dati specifici contenuti nell’ERP, fino a raggiungere i propri clienti grazie ad applicazioni specifiche per smartwatch e smartglass.
Secondo Josh Waddell, VP Mobile Innovation Center di SAP, la grande promessa dei wearable è la conoscenza del contesto: tramite uno smartwatch si può infatti conoscere la posizione; tramite gli smartglasses si possono attivare processi specifici “guardando” gli oggetti. Tutto questo può portare a ripensare il paradigma dell’enterprise, abilitando, come mostrato da Jürgen Winandi, Head of SAP Mobile Integration di Swisscom, un modello “Industry 4.0”: sensori, applicazioni, sistemi e dispositivi (wearable e non) che dialogano tra loro per portare efficacia ed efficienza nei processi aziendali.
Il caso Swisscom: smartglasses e stampanti 3D per manutenere le vending machine
Per fare un esempio concreto, in Swisscom hanno già implementato questo paradigma a supporto del processo di manutenzione delle macchine distributrici di cibi e bevande: grazie a sensori inseriti all’interno delle vending machine stesse è possibile raccogliere tutti i dati relativi al loro funzionamento tramite rete cellulare. Questi dati sono poi gestiti e inviati, tramite smartphone e smartglasses, ai manutentori sul territorio che possono accedere a informazioni in real time (anche tramite soluzioni di realtà aumentata) e, grazie a stampanti 3D installate nei mezzi, creare la maggior parte dei componenti necessari all’esecuzione dell’attività di manutenzione direttamente in loco.
La sfida in questo mercato è quindi più che mai aperta in tutte le direzioni: da un lato, i produttori devono creare prodotti sempre più smart e realmente utilizzabili da parte degli utenti, risolvendo alcune criticità come la durata della batteria, e il peso; dall’altro le aziende devono ripensare i propri processi per identificare i contesti di utilizzo e le informazioni da veicolare a questi dispositivi.