Il cloud continua a essere visto positivamente dalle aziende di tutto il mondo. In Italia, ad esempio, l’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano ha registrato nel 2023 una crescita del mercato del 19%, con un valore complessivo che ha raggiunto i 5,51 miliardi di euro. A trainare questa crescita è soprattutto la componente Public Cloud & Hybrid Cloud, indice di un utilizzo sempre più consapevole delle potenzialità della “nuvola” che però ancora non ha raggiunto la piena maturità. Infatti, in base all’ultima indagine dell’Osservatorio, tuttora quasi due organizzazioni su tre (63%) misura l’apporto del cloud al business dell’azienda in funzione del risparmio sui costi a paragone di una configurazione on-premise.
Un approccio che, alla prova dei fatti, è facile contraddire. Motivo per il quale da un po’ di tempo si parla di “repatriation” di dati, carichi di lavoro e applicazioni verso ambienti on-premise o di colocation. Su quanto sia diffusa questa tendenza, esiste uno studio di IDC dell’anno scorso da cui si evince che in effetti una percentuale tra il 70 e l’80% di organizzazioni sta facendo “rimpatriare” almeno alcuni dati dal cloud pubblico. Di certo non si assiste a un ritiro completo, quanto piuttosto a un ridisegno più oculato e “intelligente” del posizionamento dei vari workload in maniera ibrida.
Dal cloud-first e dal cloud-only al workload-first
Se durante l’ascesa del cloud i modelli cloud-first e cloud-only apparivano come gli unici in grado di abilitare processi di digitalizzazione in linea con il business, adesso si sta facendo strada un nuovo paradigma, quello del workload-first. I primi due vertono sulla convinzione che il cloud computing offra una serie di vantaggi, a confronto dei sistemi legacy tradizionali, che vanno dalla maggiore scalabilità ai minori costi di hardware e manutenzione. Vantaggi che devono tenere conto di alcuni aspetti, tra cui i profili di compliance, Data Sovereignty in primis, e i rischi di eccessiva dipendenza dai cloud provider che potrebbero adottare meccanismi di vendor lock-in per disincentivare il passaggio ad altri fornitori.
Nel workload-first, invece, l’accento si concentra sui requisiti specifici di ogni carico di lavoro, da cui discende la scelta dei servizi e delle tecnologie cloud più idonei a supportarlo. Ad esempio, alcuni carichi di lavoro potrebbero richiedere una potenza di elaborazione ad alta intensità di calcolo, mentre per altri potrebbe non essere necessario. Esistono poi applicazioni, come quelle del mondo Internet of Things (IoT), in cui i carichi di lavoro richiedono l’elaborazione in tempo reale, a differenza di altri per i quali la modalità batch è sufficiente. In sostanza, quindi, è la natura stessa del carico di lavoro a fare da guida nella scelta di cloud, on-premise, edge ecc.
I vantaggi e le sfide da considerare nell’hybrid cloud
Il modello workload-first esalta i benefici che in precedenza si pensava potessero derivare da un approccio cloud-first o cloud-only, in particolare quelli che si riferiscono alla scalabilità e all’abbattimento dei costi. Nel primo caso poiché vengono mantenuti quei servizi cloud che consentono di dimensionare le risorse verso l’alto o verso il basso, nel secondo per via dell’allineamento dei carichi di lavoro con le risorse cloud che servono. Ciò non toglie che permangano dei fattori di complessità che non si possono trascurare.
Un ambiente hybrid cloud, eterogeneo per definizione, necessita di essere integrato e orchestrato. Inoltre, implica un processo decisionale in cui gli obiettivi dell’IT siano perfettamente conseguenti a quelli strategici del business. Se perciò il workload-first fondato sull’hybrid cloud oggi è il vero antidoto a una repatriation intesa come ritorno al passato, occorre che i suoi principi si ispirino a criteri di semplificazione, trasparenza e sostenibilità. Un elemento, quest’ultimo, che oggi sta assumendo un significato sempre maggiore dal punto di vista dei consumi energetici e di carbon footprint.
La migrazione delle applicazioni nel cloud ibrido, tuttavia, può essere rallentata dalla mancanza di dati certi su cui basare il cambiamento. Questa circostanza deriva dal fatto che, oltre alla comprensione delle caratteristiche proprie dell’applicazione, nel corso degli anni lo scenario architetturale ha subito una costante evoluzione: da mainframe a desktop, server client, web-based, fino alla recente offerta di microservizi distribuiti. Ecco perché identificare lo schema di migrazione più adatto per ogni applicazione comporta sia la scelta di quelle da far migrare per prime, sia l’individuazione dell’endpoint migliore per ciascuna.
La proposta di HPE: GreenLake e Right Mix Advisor
Per rispondere alle esigenze ricordate sopra, HPE mette a disposizione tool e competenze ad hoc. Uno degli strumenti principali a tal fine è GreenLake, piattaforma che corrisponde a un portafoglio di soluzioni as-a-service che propone un’esperienza cloud ovunque risiedano dati e applicazioni: edge, data center, colocation e cloud pubblici. A queste si affianca Right Mix Advisor, un servizio che contribuisce a stabilire l’endpoint cloud e la strategia di migrazione migliore per ogni applicazione target. Il servizio prevede una roadmap con meccanismi di automazione e un metodo data-driven che combina la proprietà intellettuale della multinazionale con una serie di tool di settore. Il tutto partendo dalla valutazione puntuale della dotazione IT dell’azienda su cui fondare i suggerimenti in merito agli scenari di migrazione sintetizzabili nelle sei “R”: Rehost, Replatform, Refactor, Replace, Retire e Retain. Il Rehost, detto anche lift-and-shift, indica la migrazione di applicazioni e servizi esistenti eseguiti in un data center tradizionale su macchine virtuali. Molto utilizzato in passato, oggi è meno diffuso perché presenta dei rischi di incompatibilità tecnico-operative tra ambienti nuovi e vecchi. Replatform e Refactor sono quasi sinonimi. In entrambi i casi l’accento è posto sulla riorganizzazione dell’infrastruttura aziendale di cui spostare intere attività o parti di esse sul cloud. La selezione delle componenti da far migrare diventa quindi essenziale. Con il Replace, detto anche drop-and-shop, viene abbandonata l’applicazione originaria a favore di un’analoga applicazione cloud in SaaS. Il che non sempre è possibile, soprattutto se la prima ha subito delle personalizzazioni che si intendono conservare. Come dice la stessa parola, il concetto di Retire implica l’eliminazione delle applicazioni legacy e monolitiche nell’ottica di una migrazione massiccia verso il cloud. Mantenere infine alcune applicazioni on-premise (come dice la parola Retain) è un modo per circoscrivere quelle invece oggetto di migrazione.
Oltre alla disamina dello scenario di migrazione ottimale, Right Mix Advisor, permette di calcolare il consumo energetico dei carichi di lavoro nonché delle emissioni equivalenti di CO2 per tutte le applicazioni, così da ottenere un quadro oggettivo del proprio impatto in termini di sostenibilità.
In definitiva, i vantaggi più rilevanti del servizio comprendono la determinazione delle linee guida sull’idoneità dell’endpoint tra varie piattaforme e la selezione della strategia di modernizzazione ideale rispetto alle sei R citate. Senza dimenticare che, in quanto parte degli HPE Services, Right Mix Advisor si avvale di una metodologia e di un know-how frutto di anni di esperienza, tali da affrontare un percorso di trasformazione del cloud ibrido nel suo intero ciclo di vita.