Qualche anno fa, più precisamente nel 2006, Andrew McAfee, ricercatore presso il Center for Digital Business della Mit Sloan School of Management, coniò un termine divenuto poi di uso comune, Enterprise 2.0, per indicare “l’uso emergente di piattaforme di social software all’interno delle aziende o tra le aziende e i propri partner e clienti”.
Il punto di vista di McAfee era soprattutto indirizzato ad analizzare gli impatti organizzativi derivanti dall’adozione in ambito aziendale di strumenti nati e concepiti per la condivisione di contenuti “privati” tra soggetti “privati” collegati tra loro per mezzo di network flessibili, informali e scarsamente gerarchici. Un impatto, si diceva, che avrebbe significato il coinvolgimento diffuso e sistematico di tutti i componenti dell’organizzazione, una forte spinta alla collaborazione trasversale, alla condivisione della conoscenza e allo sviluppo e valorizzazione di reti sociali interne ed esterne all’organizzazione stessa. In altre parole, una specie di rivoluzionaria inversione di tendenza, un’occasione unica per riportare al centro delle aziende-organizzazioni il fattore umano e l’importanza del contributo umanistico in senso lato. Il tutto all’apparenza assolutamente a portata di mano.
Dal 2006 sono passati 6 anni e credo non sia difficile ammettere che, rispetto allo scenario di Enterprise 2.0 sopra ricordato, la direzione seguita sia di fatto opposta a quella ipotizzata: l’ossessione per la crescita a tutti i costi e per la produttività da incrementare sempre e comunque (come se il mondo non scoppiasse già di merci invendute….) è stata declinata in un utilizzo pervasivo delle tecnologie – soprattutto informatiche – al preciso scopo di soppiantare quante più “servo-unità umane” (secondo la felice quanto tagliente espressione di Lewis Mumford, urbanista e sociologo statunitense) possibili in favore di apparati hardware/software sempre più “autonomi”. Se non fosse irriguardoso nei confronti di una disciplina filosofica vecchia come il mondo, si potrebbe parlare di mancanza di etica informatica.
Lo stesso McAfee, insieme a Erik Brynjolfsson (docente del Mit che si occupa di studiare l’impatto dell’It sul business), ha successivamente pubblicato un interessante e-book dal titolo assai evocativo, ‘Race against the machine’, in cui in sostanza ci si chiede se il modello di azienda-società a cui si sta puntando sia realmente desiderabile o meno (dal punto di vista della società nel suo complesso). In altre parole, l’attuale utilizzo della tecnologia informatica è il migliore tra tutti quelli possibili? Quali alternative d’uso abbiamo di fronte all’applicazione di tecnologie tanto pervasive quanto invadenti? I dati di partenza – statistiche alla mano, di sovente aggiornate anche sul blog personale di McAfee – descrivono una situazione che negli Stati Uniti (ma non solo) ha visto negli ultimi anni una forte divaricazione tra il reddito medio dei livelli più alti (in costante ascesa) e quello dei livelli più bassi (in costante discesa). A questo proposito l’eccellente “Finanzcapitalismo” di Luciano Gallino fornisce dati globali e spiegazioni dettagliate del come si sia potuti giungere ad una situazione del genere nel (quasi) silenzio generale.
Negli Stati Uniti, per esempio, non solo il rapporto tra lavoratori e disoccupati è in costante discesa (con picchi in discesa nei periodi di crisi – aree in grigio) ma i profitti e gli investimenti al contrario crescono ancora più velocemente (il picco in ascesa in corrispondenza dell’ultima crisi parla da sé) – (figura 1). Depurati i profitti totali dai forti guadagni dovuti alla componente finanziaria (di nuovo, guarda caso in corrispondenza dell’ultima crisi) appare evidente che anche a parità di profitti non finanziari e investimenti, il numero di lavoratori è incredibilmente diminuito rispetto a 5-6 anni fa. Com’è stato possibile? Grazie all’informatica.
Il fatto più impressionante riguarda però lo svuotamento della “terra di mezzo” ossia dell’esercito dei livelli intermedi, i più colpiti dalla massiccia adozione dell’informatica e i meno facilmente ricollocabili dopo essere stati addestrati per una vita intera a svolgere compiti da “colletto bianco” di fronte a un computer. Sono loro i primi a gareggiare contro le macchine e, almeno finora, a perdere sistematicamente: dal 2000 a oggi negli Stati Uniti oltre ai lavoratori impiegati nei trasporti e nella manifattura, i più colpiti dall’avvento dell’informatica (oltre certo alla delocalizzazione) sono proprio gli impiegati e gli addetti alle vendite.
In uno scenario del genere l’ottimismo di Erik Brynjolfsson con la sua visione di ‘Atene digitale’ appare del tutto irrealistica: l’idea di una civiltà la cui intera popolazione, costituita appunto da novelli ateniesi digitali, conducesse una vita scandita dalla grande disponibilità di ricchezza e di tempo libero (grazie all’adozione estesa della tecnologia digitale) risulta oggi non solo ridicola ma strutturalmente infattibile, almeno viste le premesse e le direzioni intraprese nonostante ogni evidenza.
Dunque che fare, stando seduti dalla parte di chi non governa le regole del gioco? L’unica soluzione è riportare ostinatamente al centro delle organizzazioni aziendali non tanto le competenze facilmente trasformabili in algoritmi (su quello alla lunga le macchine avranno sempre la meglio) ma le proprie sensibilità umanistiche, la propria inventiva, la capacità unica di saper “leggere” intuitivamente un contesto destrutturato per estrarne valore. Insomma concentrarsi su tutto ciò che ancora oggi ci fa sconfiggere una macchina sottoposta al test di Turing.
Per concludere con una battuta, si tratta di rispondere al Bring Your Own Device, che ci vede di fatto veicoli di tecnologie pronte a sostituirci in tutto o in parte, con un ben più pregnante Bring Your Own Identity. Se l’identità di una qualsiasi organizzazione è il risultato della contaminazione continua tra le identità dei suoi componenti, sforzarsi di portare le proprie identità multiple all’interno delle aziende-organizzazioni è un modo efficace per provare a indurre un cambiamento organizzativo che non solo stenta ad arrivare ma che al contrario, pare tutt’altro che di là da venire. La standardizzazione, l’omologazione, l’incapacità di deviare da un percorso prestabilito sono virtù solo quando si parla di macchine, nel caso di persone sono solo l’anticamera di una competizione impari dalla quale non si può che uscire sconfitti.
* Simone Bosetti è responsabile It e organizzazione di Rbm Salute