Se c’era bisogno di un’ulteriore mazzata alle granitiche certezze del Cio “old style” (ma sono sicuro che sto parlando a Cio tutti “new style”) questa è arrivata dalle immagini provenienti da tutto il mondo, relative alla spasmodica attesa dell’apertura a mezzanotte dello scorso 11 luglio delle principali catene e negozi di informatica per acquistare l’oggetto del desiderio: l’iPhone 3G. Durante la cosiddetta “notte bianca”, i cultori dell’oggetto partorito dalla inesauribile fantasia di Steve Jobs non hanno avuto ritegno a mettersi in fila e a farsi fotografare e riconoscere come “adepti” della Casa della Mela (mentre i più compassati staranno facendo programmi di acquisto più avanti, quando, con maggiore discrezione, i riflettori si saranno spenti e potranno anch’essi accaparrarsi l’agognato oggetto del desiderio). Tim riferisce in Italia di 16 mila unità vendute durante il primo giorno. Vodafone parla di “grande successo oltre le migliori aspettative”; previsioni di oltre 100 mila pezzi nella prima settimana, moltiplicazione del numero di punti vendita per soddisfare la domanda, obiettivo di 10 milioni di iPhone nel mondo venduti per questo 2008. Altro che Enterprise 2.0. Qui si tratta degli Unni alle porte.
Riportiamo la discussione verso i nostri territori. Guardiamo cioè il fenomeno dalla prospettiva delle imprese e cerchiamo di ragionarci un po’ su. È indubbio ormai che, a ondate, l’utilizzo di funzioni innovative e multimediali attraverso i cellulari (e altri tipi di device) diventeranno parte del nostro vivere quotidiano. La domanda che dobbiamo porci, vedendo le code fuori dai negozi di tutto il mondo per l’acquisto dell’iPhone, è molto semplice: “Può un fenomeno di questa portata – al di là dell’iPhone specifico ma estendiamolo piuttosto alla voglia di comunicare e di fruire di servizi Internet – essere tenuto fuori dalle mura della nostra azienda?”. E quando mai, in passato, è successo che un cambiamento sociale non abbia permeato i modelli con i quali un’impresa si muove sul mercato, e quindi nella società?
Siamo, con il fenomeno 2.0, di cui si sta ormai parlando da un po’ di tempo, agli albori di nuove modalità relazionali tra le persone, modalità che si aggiungono a quelle consolidate e “sicure” (telefono, riunioni, confronti con i clienti, anche e-mail) e che, per rassicurare gli scettici, certamente non le sostituiranno ma andranno a generare nuove opportunità di rapporti, di collaborazione e cooperazione. Il punto è un altro. È quello di affrontare questa fase di cambiamento senza farsene travolgere, governando quel processo di “contaminazione” tra tecnologie innovative (2.0) e tecnologie strutturali (applicazioni mission critical, infrastrutture it, sistemi, reti, ecc) che potrà portare vantaggi e nuove opzioni di crescita e innovazione se si saprà trovare la propria via al cambiamento.
Se la società, che è fatta di persone, ha voglia di sperimentare, di fruire di servizi web, di muoversi attingendo a informazioni e comunicando in modo nuovo, se ha voglia di partecipare a momenti di confronto e di condivisione, perché questa risorsa non dovrebbe essere messa a frutto anche nella modalità di vicinanza dell’impresa al mercato? Ricordandoci inoltre che i consumatori dei prodotti e dei servizi della mia impresa sono, molto spesso, anche le stesse persone che erano in coda fuori dai negozi per prendere l’iPhone lo scorso luglio.
L’elemento che ha sempre contraddistinto le aziende leader, innovative (e anche le persone leader e innovatrici) da chi ha seguito il fenomeno o se ne è fatto travolgere, è stata proprio la voglia di accettare il cambiamento, la sperimentazione, l’innovazione, e rifiutare la chiusura al nuovo dietro comodi (e ineccepibili) problemi di security, di policy aziendale, di governance e di “far funzionare il tutto”. L’innovazione è una condizione mentale, non un problema tecnologico. È prendere coscienza che accanto alle applicazioni mission critical esiste un mondo esterno che sta cambiando nelle sue dinamiche sociali. Un mondo che devo, come Cio, tenere presente anche perché spesso le persone che lavorano in azienda sperimentano approcci, modelli, tecnologie in una modalità talvolta “carbonara” rispetto alle policy che io, come responsabile del data center, sempre meno riesco a governare.
Come mettere d’accordo DB2 e iPhone non sarà mai un problema tecnologico. Né tanto meno ha senso attribuire alla metafora Db2-iPhone un rapporto vecchio-nuovo. Tutte le tecnologie, anche quelle più legacy, si sono evolute per seguire una rapida e turbolenta evoluzione dei mercati e della domanda. L’innovazione tecnologica spesso guida la trasformazione dei modelli di business di impresa e viceversa, in una simbiosi che, nelle aziende più innovative, siano esse fornitori Ict o imprese utenti, determina la loro capacità a stabilire standard e quindi ad affermarsi come leader.
Il lavoro da compiere è, come si dice in questi casi, soprattutto di tipo culturale. E noi, come italiani, non siamo inferiori a nessuno. Forse un po’ fatalisti, preoccupati, con un ingiustificato senso di inferiorità (ci siamo ormai dimenticati cosa eravamo, per tutto il resto del mondo, nei secoli precedenti). Ma la flessibilità, la voglia di trovare la strada giusta e di sperimentare nuove vie fa parte del nostro modo di essere. Proprio di recente mi è capitato di avere un confronto con un Cio italiano di una importante azienda che opera nel nostro Paese. Lo riferisco a paradigma dello sforzo di interpretazione del nuovo, della “tensione positiva” al cambiamento che esiste anche nel nostro Paese. Si parlava di innovazione e interessante era la riflessione sul nuovo modello di diffusione in azienda delle tematiche 2.0 che questo Cio stava effettuando al proprio interno, come data center, e nel rapporto tra questo e gli stakeholder aziendali. “Devo trovare in azienda dei nuclei di innovazione, persone con le quali posso compiere delle sperimentazioni di utilizzo, di processo ed organizzative per poi decidere se, come e in che modo diffondere questa innovazione che viene dal basso all’interno dell’intera azienda e nel rapporto tra questa e il mercato”. Non era teoria; è sperimentazione, è passaggio culturale, è la volontà di riscrivere, certo faticosamente e con il rischio di non essere compresi, modelli consolidati di diffusione di innovazione e tecnologia, in passato portati alle persone dell’azienda in modalità soprattutto top-down, molto strutturata; di fatto in antitesi con il modello “peer”, paritetico, collaborativo, che sta alla base della rivoluzione 2.0. Il tempo per provarci c’è ed è adesso. Bisogna avere la voglia di mettersi in gioco sapendo di entrare in territori inesplorati che possono riservare numerose sorprese. Talvolta anche molto positive.
A proposito: a Tokyo hanno registrato un chilometro e mezzo di coda fuori da un negozio del centro che vendeva l’iPhone. Ad un ragazzo in fila, tra i primi ad averlo acquistato, è stato chiesto qual è stata la prima cosa fatta con il super multimediale touch screen device tanto atteso: “Una telefonata alla mia fidanzata” è stata la disarmante risposta.
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