Si lavora in modo sempre più smart… ognuno con le proprie regole

Cresce il fenomeno dello smart working nelle medio-grandi imprese e assume molte forme diverse, a seconda
delle peculiarità aziendali; la tecnologia è una leva di cambiamento determinante, ma perché venga sfruttata correttamente è necessario che i dipendenti sviluppino la giusta mentalità lavorativa. Il report 2015 dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano uscirà a breve.
Ecco alcune anticipazioni sulle principali tendenze rilevate.

Pubblicato il 26 Ott 2015

Alla vigilia dell’uscita del report 2015 realizzato dall’Osservatorio Smart Working, School of Management del Politecnico di Milano, ZeroUno ha intervistato Fiorella Crespi, responsabile della ricerca, per avere qualche anticipazione sui trend rilevati e raccogliere alcune riflessioni scaturite – oltre che dall’elaborazione delle interviste effettuate – da una più generale osservazione delle aziende frequentate per la raccolta dei dati (250 imprese pubbliche e private, cross settore, di medio-grande dimensione, ovvero con più di 250 addetti).
“Il fenomeno smart working è in crescita; considerando sia chi ha reso sistematico questo approccio al lavoro, sia chi ha attivato progetti pilota, rispetto all’anno scorso la diffusione è sostanzialmente raddoppiata: nel report 2014 erano l’8% le aziende che lo praticavano, oggi ne contiamo circa 2 su 10”, spiega Crespi, che quindi sottolinea la forte diversificazione dei progetti in atto – per tipologia e misura della flessibilità concessa o meno ai lavoratori – e porta l’attenzione su un caso in particolare: “Ci sono realtà che hanno deciso di concedere più autonomia, pur non consentendo ai lavoratori di operare all’esterno delle sedi aziendali: hanno lasciato agli addetti la libertà di lavorare non solo nel proprio ufficio di appartenenza, ma anche in altri luoghi di proprietà dell’azienda; nel caso delle banche, per esempio, le filiali”. Come spiega la ricercatrice, anche questo tipo di flessibilità va considerata smart working [per darne una più chiara definizione, possiamo descriverlo come una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati – ndr] perché si tratta comunque di una possibilità di scelta offerta al lavoratore. Questo tipo di limitazione in materia “luoghi di lavoro” è piuttosto diffusa anche a causa di problematiche relative alla sicurezza: “Sul piano tecnologico – racconta la ricercatrice – si ha paura di permettere ai dipendenti di lavorare al di fuori della rete aziendale protetta; rispetto al tema degli infortuni sul lavoro, la questione riguarda invece la dimensione Inail, che non essendosi ancora pronunciata chiaramente sul tema, lascia una zona grigia che spinge molte aziende, per cautelarsi, a non considerare come luoghi di lavoro ambienti diversi dagli uffici aziendali”.

C’è chi traina, c’è chi è ha più difficoltà…

Fiorella Crespi, Responsabile della Ricerca Osservatorio Smart Working, School of Management del Politecnico di Milano

“A livello settoriale, come lo scorso anno, non c’è una focalizzazione su particolari settori tecnologicamente evoluti, né è vero che lo smart working si sta diffondendo solo nelle aziende Ict – dice Crespi – I progetti sono portati avanti anche da realtà appartenenti a settori più tradizionali, come quello bancario e alimentare”. Questi due ambiti, in particolare, risultano i più attivi in materia, e a proposito delle banche, la leva è da ricercare nella forte esigenza di razionalizzazione degli spazi, spesso sotto-utilizzati, che caratterizza il settore.
Più in difficoltà la Pa: “Generalmente si limita a sperimentare nel campo del telelavoro, qualcosa di più rigido rispetto allo smart working: nel primo cambia infatti solo il luogo di lavoro, e non si ritrova il concetto di ‘libertà di scelta’ proprio del fenomeno”, spiega Crespi.
Un’altra ricerca svolta in collaborazione con Doxa, ci permette di gettare uno sguardo anche sulle Pmi, e anche in questo caso lo scenario non è roseo: “Solo il 5% dice di praticarlo – spiega Crespi – e una azienda su due dichiara di non essere per niente interessata al tema”. Una tendenza negativa che si contrappone all’accelerazione che sta invece caratterizzando il percorso delle medio-grandi imprese.

Falsi miti e aspetti sottovalutati

A lavori conclusi, i ricercatori dell’Osservatorio hanno individuato alcuni “falsi miti” legati al tema smart working:

  1. è diffusa l’idea che questo sia assimilabile al telelavoro, e che quindi possa essere causa di  un senso di isolamento del lavoratore; ma, come già accennato, smart working non vuol dire affatto dover necessariamente lavorare solo da casa, o comunque altrove rispetto ai propri colleghi: al contrario, significa poter scegliere, e dunque anche, come dice la ricercatrice, “capire quando gli strumenti Ucc non bastano, ed è utile tornare al face-to-face ‘tradizionale’, che resta comunque un mezzo di comunicazione in molti casi insostituibile”.
  2. C’è poi chi sostiene che i sindacati ostacolino i progetti, per paura che il venir meno di tempi e luoghi di lavoro definiti da un lato, e il consolidarsi di nuovi metodi di valutazione delle prestazioni dei dipendenti “per obiettivi raggiunti” dall’altro, facciano cadere una serie di tutele tradizionalmente riservate ai lavoratori. “Non è così – dice Crespi – ogni volta che i sindacati sono stati coinvolti, il feed back è stato positivo, e spesso hanno collaborato con successo anche nella definizione del regolamento legato al nuovo rapporto lavorativo”.
  3. Infine, non è vero che esistono organizzazioni troppo complesse o che non si prestano a questa evoluzione: “Esiste una forma di smart working per tutti – spiega la ricercatrice – si tratta semplicemente di definire il modello adatto alle peculiarità dell’azienda”.

Viceversa, ci sono aspetti spesso sottovalutati:

  1. molta attenzione va riservata al tema del Working Intensification, ovvero del rischio che lavorare per obiettivi, senza limiti di tempo definiti, crei un’attività eccessiva: “Il manager deve responsabilizzarsi nel controllare che questo non avvenga – dice Crespi – e le persone devono autoregolarsi. Il lavoro eccessivo – aggiunge la ricercatrice – non porta a un incremento lineare della produttività, per cui non c’è alcuna convenienza né per la persona, né per le aziende”.
  2. lo smart working implica uno sforzo di pianificazione molto significativo: “La logica del lavoro per urgenze – spiega Crespi – risulta poco praticabile, perché per sfruttare, per esempio, luoghi di lavoro alternativi all’ufficio, devo sapere in anticipo che attività svolgerò, assicurandomi che queste siano gestibili anche al di fuori della sede di lavoro abituale”: sono skill che il lavoratore deve imparare a sviluppare.
  3. Non dare per scontata la tecnologia: è necessario assicurarsi che gli strumenti che abilitano il lavoro “smart” funzionino correttamente, o si rischia di influenzare negativamente l’opinione che l’addetto può farsi del modello in generale. “Quando si parte con le sperimentazioni – spiega Crespi – non sempre si fanno investimenti massicci e magari ci si limita a sfruttare la dotazione tecnologica che il dipendente ha già a disposizione, col risultato, controproducente, che una serie di operazioni svolte da remoto, in interazione con i sistemi aziendali, risultano rallentate, i tempi di attesa diventano lunghi e il caricamento dei dati difficoltoso”.

Il supporto tecnologico: non solo Ucc

“Esistono 4 tipologie di tecnologie abilitanti, che rispondono a esigenze diverse”, dice Crespi, che quindi nomina, come prima categoria, gli strumenti Ucc, ovviamente preziosi per l’interazione con i colleghi e per la creazione e la condivisione di informazioni da remoto; seguono i mobile devices (smartphone e tablet, ma anche pc portatili, senza i quali diventa impossibile spostarsi persino all’interno della stessa azienda) e le applicazioni mobile aziendali, necessarie per sfruttare le potenzialità dei primi. Crespi ricorda poi tutte le soluzioni che consentono, tramite Internet, di lavorare sulle applicazioni operative aziendali da remoto e chiude l’elenco con le tecnologie connesse alla gestione degli spazi fisici: sistemi di prenotazione delle sale riunioni, strumenti pensati per ridurre i rumori di fondo tipici degli open space, soluzioni di smart printing o, più semplicemente, reti Wi-Fi. “Le tecnologie Ucc risultano molto diffuse, ma è difficile capire se ne viene fatto un uso corretto, sfruttando effettivamente tutte le loro funzionalità”, dice la ricercatrice, che quindi prosegue: “È importante in ogni caso non associare solamente lo Ucc allo smart working, proprio perché quest’ultimo non va considerato solo come lavoro a distanza: anche le soluzioni che consentono di operare meglio nel perimetro aziendale meritano attenzione”; e se smart printing e W-Fi sono soluzioni consolidate, altre, come quelle legate al tema dell’acustica, hanno una diffusione ancora troppo limitata.

Cambiare mentalità: non mancano le contraddizioni

Abbandonare una mentalità basata sui principi del controllo per abbracciarne una fondata sulla responsabilizzazione degli individui non è un passaggio immediato; lo testimoniano situazioni contraddittorie, come nel caso di aziende che prevedono, al termine di una giornata di smart working, che il lavoratore produca una relazione descrittiva del lavoro svolto, retaggio di un bisogno di monitoraggio che poco si sposa con la responsabilizzazione sopra citata. “Non si può cambiare il modo di ragionare delle persone dall’oggi al domani: se sulle tecnologie si può lavorare più serenamente, con le persone il percorso è più lungo e complesso”; e tuttavia, nonostante le difficoltà, questo aspetto culturale è un risultato che le aziende possono e devono ottenere: “Lo smart working deve assolutamente essere visto anche come un modo per attivare questi meccanismi di responsabilizzazione, e non solo come strumento per aumentare il welfare aziendale”, dice Crespi, che sottolinea come il management stia in molti casi promuovendo lo smart working proprio con l’obiettivo primario di cambiare il modo in cui i dipendenti approcciano il lavoro, a differenza delle Hr, che spesso, altrettanto legittimamente, lo propongono, su pressione dei lavoratori, come soluzione per migliorare l’equilibrio tra sfera privata e lavorativa.

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