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Smart Working 2020, ecco quel che è successo durante la pandemia e cosa aspettarsi

Secondo l’Osservatorio Smart Working 2020 sono stati 6,38 milioni gli smart worker d’emergenza e saranno ben 5,35 i lavoratori agili protagonisti del new normal

Pubblicato il 13 Nov 2020

Osservatorio Smart Working 2020

6,58 milioni è il numero di coloro che nei mesi scorsi hanno fatto smart working come imposto per affrontare la fase acuta dell’emergenza. Secondo gli ultimi dati dati dell’Osservatorio Smart Working 2020 della School of Management del Politecnico di Milano, infatti, lo smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle PMI e questo significa circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019.

Quanti sono stati gli smart worker nei mesi scorsi? I numeri dell’Osservatorio Smart Working 2020

Se 1,13 milioni sono stati gli smart worker nelle PMI e 1,5 milioni quelli nelle microimprese sotto i dieci addetti, il maggior numero di smart worker lavora nelle grandi imprese (2,11 milioni).

A settembre 2020, tra rientri consigliati e obbligatori, difficoltà e incertezze nell’apertura delle sedi di lavoro, gli smart worker (che hanno lavorato anche da remoto) sono scesi a 5,06 milioni, suddivisi in 1,67 milioni nelle grandi imprese, 1,18 milioni nelle microimprese; in media i lavoratori nelle grandi aziende private hanno lavorato da remoto per la metà del loro tempo lavorativo (circa 2,7 giorni a settimana).

Per quanto riguarda i comparti industriali, significativa l’adozione soprattutto nei settori finance e ICT e un po’ meno nel retail e nel manifatturiero. E sono state coinvolte professionalità prima ritenute incompatibili con questo modello di lavoro: nel 33% delle grandi imprese hanno lavorato da remoto per la prima volta gli operatori di call center, nel 21% gli addetti allo sportello hanno lavorato da casa riconvertendo una parte delle attività e comunicando digitalmente con i clienti, nel 17% è stato applicato il lavoro da remoto anche a operai specializzati digitalizzando l’accesso ai macchinari. La presenza di iniziative di Smart Working prima dell’emergenza ha inciso sul numero di lavoratori da remoto: se per le imprese che avevano progetti in atto mediamente è stato pari al 59% dei dipendenti, nelle altre si è fermato al 36%.

Nelle pubbliche amministrazioni in media ha potuto lavorare da remoto il 58% del personale, pari a 1,85 milioni (sono scesi a 1,32 milioni a settembre facendo smart working 1,2 giorni a settimana). Anche in questo caso, le PA che avevano già progetti in corso hanno potuto coinvolgere un numero maggiore di persone (70%) rispetto alle amministrazioni che hanno dovuto cominciare da zero (55%).

New normal, cosa aspettarsi?

Secondo quanto evidenziato dagli analisti del Politecnico nell’Osservatorio Smart Working 2020, lo smart working è ormai entrato nella quotidianità degli italiani e destinato a rimanerci: al termine dell’emergenza si stima che i lavoratori agili, che lavoreranno almeno in parte da remoto, saranno complessivamente 5,35 milioni, di cui 1,72 milioni nelle grandi imprese, 920mila nelle PMI, 1,23 milioni nelle microimprese e 1,48 milioni nelle PA.

Più nello specifico, le organizzazioni si stanno attrezzando per tradurre le nuove abitudini e aspettative dei lavoratori in un nuovo approccio al lavoro. Una grande impresa su due interverrà sugli spazi fisici al termine dell’emergenza (51%), differenziandoli (29%), ampliandoli (12%) o riducendoli (10%); il 38% non prevede riprogettazioni ma cambierà le modalità d’uso; solo l’11% tornerà a lavorare come prima. Il 36% delle grandi imprese modificherà i progetti di smart working in corso e digitalizzerà i processi. Ben il 70% di chi ha un progetto di lavoro agile aumenterà le giornate in cui è possibile lavorare da remoto, passando da un solo giorno alla settimana prima della pandemia a una media di 2,7 giornate a emergenza conclusa. Il 65% coinvolgerà più persone nelle iniziative, il 42% includerà profili prima esclusi, il 17% agirà sull’orario di lavoro.

Per la PA la prima misura sarà introdurre progetti di Smart Working (48%), seguita dalla digitalizzazione di processi e attività (42%) e dall’incremento delle tecnologie in uso (35%). Anche le pubbliche amministrazioni aumenteranno il personale coinvolto nei progetti di smart working (72%), che prima dell’emergenza era solo il 12%, e le giornate di lavoro agile (47%), passando da una media settimanale inferiore a un giorno a circa 1,4 giorni a settimana.

La seconda fase dell’emergenza, che cosa si è fatto per il rientro in ufficio?

Con la fine del lockdown e l’inizio della fase 2 della gestione dell’emergenza aziende e PA, secondo gli uomini dell’Osservatorio Smart Working 2020, hanno gradualmente iniziato a riaprire gli uffici, riadattando spazi e orari per mantenere il distanziamento, integrando il lavoro in sede con il lavoro da remoto. Il 66% delle grandi imprese e l’81% delle PA ha permesso al personale di rientrare in sede già fra maggio e giugno, il 7% delle grandi aziende e 13% delle PA ha preferito riaprire durante l’estate, mentre il 20% delle grandi imprese e il 4% ha atteso fino a settembre e solo il 7% delle imprese e l’1% delle PA a fine settembre continuava ancora a privilegiare il lavoro da remoto.

A settembre, di conseguenza, il numero complessivo di smart worker è sceso a quota 5,06 milioni. In media, nelle grandi aziende i dipendenti hanno lavorato da remoto 2,7 giorni a settimana, 1,2 giorno nel settore pubblico.

Per facilitare il rientro in sicurezza le principali iniziative sono state l’introduzione di regole e linee guida sull’utilizzo degli ambienti (per il 91% delle grandi imprese e il 78% delle PA), la definizione di un piano di rientro delle persone con turni per i team di lavoro (88% e 69%), e l’introduzione di segnaletica per orientare i flussi e incentivare comportamenti sicuri (81% e 64%). Il 72% delle grandi aziende e il 46% delle PA ha lasciato autonomia riguardo al numero di giornate di lavoro agile, ma con procedure per non superare il limite di persone imposto dalla necessità di distanziamento. Questa esigenza in particolare ha portato a interventi sugli ambienti di lavoro, come postazioni più distanziate o separate (52% grandi imprese e 50% PA) o la chiusura di alcune aree della sede (45% e 13%).

Per evitare assembramenti sono stati rimodulati gli orari di ingresso e uscita (34% e 25%). Solo una minoranza di PMI ha previsto azioni per il rientro in ufficio. Il 24% ha introdotto regole o linee guida sull’utilizzo degli ambienti, il 23% segnaletica o cartellonistica per orientare i flussi di persone e per la promozione di comportamenti sicuri, il 21% ha concesso maggiore flessibilità in entrata e in uscita e ha definito un piano di rientro dei lavoratori, il 16% ha dovuto chiudere alcune aree della sede e il 15% ha modificato l’ambiente di lavoro.

Smart working 2020: tra difficoltà e benefici sperimentati

L’applicazione dello smart working durante la pandemia, seppure forzata e emergenziale, ha dimostrato come un modo diverso di lavorare sia possibile anche per figure professionali prima ritenute incompatibili, ma ha anche messo a nudo l’impreparazione tecnologica di molte organizzazioni.

D’altra parte, il ricorso al lavoro da casa forzato ha rivelato la fragilità tecnologica delle organizzazioni, anche delle imprese più grandi e strutturate. Il 69% di queste ha dovuto aumentare la disponibilità di pc portatili e altri strumenti hardware, il 65% di sistemi per accedere da remoto e in sicurezza agli applicativi aziendali e il 45% di strumenti per la collaborazione e comunicazione.

Gli strumenti più introdotti sono stati pc portatili (nel 26% del campione) e tool per le videoconferenze (16%). Il 38% ha dato ai lavoratori la possibilità di utilizzare i dispositivi personali.

Il 50% delle PMI ha dovuto sospendere l’attività e non si è quindi attivata sulle tecnologie. Le aziende che hanno aumentato la dotazione tecnologica hanno puntato su strumenti hardware (15%), su software per la collaborazione a distanza (14%), su sistemi per l’accesso sicuro ai dati da remoto (14%) o ha incoraggiato l’uso dei dispositivi personali (14%).

Più di quattro amministrazioni pubbliche su dieci hanno dovuto incrementare gli strumenti hardware a disposizione del personale (42%), quasi la metà è intervenuta sui software (49%), soprattutto applicazioni per le videoconferenze (60%), sistemi per l’accesso ai dati da remoto in sicurezza (come le VPN, 46%) e i pc portatili (29%). Tre quarti delle amministrazioni hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, a causa delle limitazioni di spesa e dell’arretratezza tecnologia. Il 43% di queste non ha integrato la dotazione personale dei dipendenti, che hanno dovuto attrezzarsi con proprie risorse, e solo il 38% si è attivata per garantire l’accesso sicuro ai dati da remoto.

A livello organizzativo, invece, è stato difficile mantenere un equilibrio fra lavoro e vita privata per il 58% delle grandi aziende e il 28% dei lavoratori, e per il 33% delle organizzazioni i manager non erano preparati a gestire il lavoro da remoto. Nonostante le difficoltà, questo Smart Working atipico ha contribuito a migliorare le competenze digitali dei dipendenti (per il 71% delle grandi imprese e il 53% delle PA), a ripensare i processi aziendali (59% e 42%) e ad abbattere barriere e pregiudizi sul lavoro agile (65% delle grandi imprese), segnando una svolta irreversibile nell’organizzazione del lavoro.

Le modalità di lavoro sperimentate durante l’emergenza sono state per certi versi più vicine al telelavoro che a un vero smart working. Il 29% dei lavoratori ha incontrato difficoltà a separare il tempo del lavoro e quello privato (29%) e a mantenere un equilibrio fra i due aspetti (28%), oltre a sperimentare una sensazione di isolamento nei confronti dell’organizzazione nel suo insieme (29%). Il difficile work-life balance è stata anche la prima barriera da superare per le grandi imprese (58%), seguita dalla disparità del carico di lavoro fra alcuni lavoratori meno impegnati e altri sovraccaricati (40%), dall’impreparazione dei manager a gestire il lavoro da remoto (33%) e limitate competenze digitali del personale (31%).

Nelle PA, invece, le difficoltà maggiori hanno riguardato l’inadeguatezza delle tecnologie a disposizione (46%) e la disparità nel carico di lavoro (39%), poi l’equilibrio fra vita privata e professionale (33%) e le scarse competenze digitali (31%).

Nonostante queste forzature e difficoltà, nelle analisi dell’Osservatorio Smart Working 2020 si legge che le organizzazioni riconoscono anche evidenti benefici.

Nelle grandi imprese sono migliorate le digital skills dei dipendenti (71%), sono stati accantonati pregiudizi sul lavoro agile (65%), ripensati i processi aziendali (59%) ed è aumentata la consapevolezza sulla capacità di resilienza della propria organizzazione (60%).

Nelle PA il beneficio più evidente è l’opportunità di sperimentare nuovi strumenti digitali (56%), seguita dal miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori (53%), e dal ripensamento dei processi aziendali (42%).

Analizzando l’impatto sull’insieme dei lavoratori, la grande maggioranza degli smart worker rileva un effetto positivo del lavoro da remoto sulle performance dell’organizzazione: il 73% ritiene buona o ottima la propria concentrazione nelle attività lavorative, per il 76% è aumentata l’efficacia, per il 72% l’efficienza e per il 65% ha portato innovazione nel lavoro.

“L’emergenza Covid-19 – ha affermato Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working – ha accelerato una trasformazione del modello di organizzazione del lavoro che in tempi normali avrebbe richiesto anni, dimostrando che lo smart working può riguardare una platea potenzialmente molto ampia di lavoratori, a patto di digitalizzare i processi e dotare il personale di strumenti e competenze adeguate. Ora è necessario ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio smart working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Bisogna mettere al centro le persone con le loro esigenze, i loro talenti e singolarità, strutturando piani di formazione, coinvolgimento e welfare che aiutino le persone ad esprimere al meglio il proprio potenziale”.

Mariano Corso, Direttore Scientifico dell'Osservatorio Cloud Transformation della School of Management del Politecnico di Milano
Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working

“Nell’emergenza – ha concluso Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working – abbiamo acquisito rapidamente consapevolezza dei vantaggi del lavoro agile e abbiamo avuto l’opportunità di sperimentarlo su vasta scala, pur se in una forma atipica. Il rischio, però, è di trattarlo come un obbligo normativo o una misura temporanea ed emergenziale: si tratta invece di un’occasione storica che ci porterà verso un New Normal, con benefici non soltanto nel lavoro, ma sull’intero ecosistema di servizi, città e territori”.

Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working

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