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Smart working: cresce nelle imprese ma a velocità diverse

Lo scorso giugno è entrata in vigore la nuova legge sul lavoro agile, che dovrebbe favorirne la diffusione non solo nelle grandi aziende, ma anche nelle PMI e nella PA. Il nuovo report dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano analizza dinamiche e criticità. Aumentano nelle grandi imprese progetti strutturati, mentre ancora scetticismo e investimenti limitati permangono nelle dimensioni aziendali più contenute.

Pubblicato il 24 Ott 2017

Smart-Working1

Riuscirà la nuova legge 81/2017 sul lavoro agile (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 14 giugno scorso) ad accelerare la diffusione degli accordi di flessibilità spazio-temporale nelle aziende private, e a favorirne una stabile e proficua introduzione anche nella PA?

Probabilmente sì, se si pensa che, pur in assenza di un quadro normativo di riferimento, l’evoluzione e l’estensione del fenomeno hanno aumentato il ritmo anche nel 2017, come ha messo in evidenza l’ultimo report dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentato al convegno Smart working: sotto la punta dell’iceberg.

“La nuova legge – ha sottolineato Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working –, che va peraltro considerata come la più avanzata oggi esistente a livello europeo, intanto ha già il merito intrinseco di sgomberare il campo da uno degli alibi più ricorrenti accampati dalle aziende in materia di lavoro agile: quello di non avere un quadro normativo di riferimento”.

Per quanto lento, discontinuo e disseminato di ostacoli e resistenze, il processo evolutivo verso un nuovo scenario del mondo del lavoro appare difatti inarrestabile. La panoramica del 2017 scattata dall’indagine dell’Osservatorio Smart Working conferma le tendenze in atto negli ultimi anni e sottolinea anche i passi in avanti rispetto al 2016.

A muoversi con maggior dinamismo e chiarezza di obiettivi sono soprattutto le grandi aziende (con oltre 250 addetti): nel 2017, delle 206 imprese che hanno partecipato alla ricerca, il 36% ha avviato progetti strutturati di lavoro agile, contro il 30% dello scorso anno.

Figura 1 – Gli ostacoli all’introduzione nella PMI fonte: Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano

Anche tra le PMI (567 le aziende considerate) aumenta l’interesse per il lavoro agile, benché l’approccio operativo sia per lo più informale: il 22% ha in corso progetti di Smart Working, ma solo il 7% con iniziative strutturate. Allo stesso tempo, però, le piccole-medie aziende mantengono alta la sfiducia nei confronti dei possibili miglioramenti apportati dall’introduzione del lavoro agile. Il 40% si dichiara “non interessata”: il 53% di queste PMI (figura 1) ritiene il lavoro agile poco applicabile alla propria realtà aziendale, soprattutto nei casi d’imprese attive nei settori manifatturiero, costruzioni/riparazioni/installazioni, commercio e hospitality & travel.

Non solo remote working o desk sharing

A monte di questo disinteresse marcato ed esplicito delle PMI (così come delle resistenze che sussistono in molti grandi gruppi) permane una conoscenza piuttosto limitata delle applicazioni concrete e realizzabili dello Smart Working all’interno dei modelli organizzativi aziendali.

Figura 2 – I modelli di Smart Working nelle grandi aziende fonte: Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano

“Nella visione attualmente ‘di moda’ dello Smart Working – ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working – vengono spesso enfatizzati solo gli aspetti più esterni e superficiali. Si dà per lo più risalto a un’unica leva, quella del remote working: da casa, da altre sedi aziendali o da spazi di coworking o business center, come succede nel 47% delle grandi imprese (figura 2). O, altrimenti, si punta solo sulla riprogettazione degli spazi, utilizzando modelli come quello dell’Activity Based Working e del desk sharing [scrivanie non assegnate, ndr]. Lo Smart Working, invece, va affrontato come un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro, perché riguarda anche lo sviluppo parallelo di nuovi strumenti e competenze digitali nonché la diffusione di modelli manageriali ispirati ai principi della Result Based Organization, basati sull’autonomia e sulla responsabilizzazione sui risultati. È una filosofia di approccio sistemico e integrato che tocca attualmente appena il 9% delle grandi aziende presenti in Italia” (figura 3).

Figura 3 – Result Based Organization nella mia organizzazione fonte: Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano

Per il successo e lo sviluppo efficace dei progetti di Smart Working, l’interconnessione e la coevoluzione tra le tecnologie digitali disponibili e i soft skill maturati dai lavoratori sono più che mai imprescindibili. Un postulato ampiamente riconosciuto e condiviso sia nelle aziende sia nella PA, ma che incontra ancora serie difficoltà di applicazione nelle realtà operative di tutti i giorni. Nelle grandi aziende, le tecnologie di supporto del lavoro da remoto sono ormai piuttosto diffuse: a cominciare dalle soluzioni per la sicurezza e l’accessibilità dei dati da remoto e da diversi device (95%) e dalle iniziative di mobility, come la presenza di device mobili e mobile business app (82%). Relativamente meno presenti sono i servizi di social collaboration integrati (61%), e ancor meno le workspace technology, per un utilizzo più flessibile degli ambienti all’interno delle mura aziendali (36%).

Ma la presenza in azienda di questi strumenti coincide ancora di rado con un’effettiva e diffusa capacità di utilizzo da parte dei lavoratori, e questo impedisce in molti casi di lavorare da remoto o in mobilità interna con sufficiente efficacia e sicurezza. Perciò l’86% delle grandi imprese che hanno lanciato progetti strutturati di Smart Working ha dovuto affrontare investimenti particolarmente consistenti non solo in device e applicazioni, ma anche nella formazione dei collaboratori coinvolti per diffondere in modo omogeneo e, allo stesso tempo, mirato una serie di Digital Soft Skill trasversali rispetto al profilo professionale di ciascuno e il meno legate possibile ai singoli strumenti. Un impegno che ancora poche aziende affrontano con i mezzi e un’energia all’altezza della sfida. I casi di eccellenza sono particolarmente eloquenti anche in tal senso. “Nel giro di 18 mesi – ha spiegato Maurizio Di Fonzo, Chief HR, Organization and Change Management di Gruppo Axa Italia, al cui progetto “Smart working, smart life” è andato il premio della giuria dello Smart Working Award 2017 – per i nostri 1.400 collaboratori che hanno aderito all’iniziativa, abbiamo provveduto alla sostituzione di tutti i PC fissi a favore di PC portatili, all’installazione di softphone e della VPN e all’adeguamento dei sistemi IT per permettere l’accesso a tutti gli applicativi al di fuori della sede aziendale.
 E ognuno di loro ha dovuto frequentare un corso di formazione e di aggiornamento, in particolare sulla gestione della sicurezza dei dati”.

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