Smart working è diventato un termine sempre più utilizzato quando si parla di riorganizzazione del lavoro tanto nelle startup quanto in aziende storiche delle più diverse dimensioni e appartenenze settoriali. Fra le ultime a farlo in Europa, l’Italia nel 2017 si è dotata di una legge dedicata a questo tema. “Va però detto – sostiene Emanuele Madini, Associate Partner, Partners4Innovation, intervenendo all’Executive Cocktail Smart working: come garantire flessibilità organizzativa e IT governance organizzato dalla nostra rivista con la collaborazione di MobileIron, uno dei leader mondiali nelle tecnologie di Enterprise Mobile Management (EMM) – che “dal punto di vista normativo oggi il nostro paese può vantare un framework più avanzato, ad esempio, di quelli di Francia e Germania”.
Ciononostante, esiste il rischio che lo smart working resti per lungo tempo una buzzword poco definita, diluita per esempio all’interno di politiche più generali di welfare aziendale. “Lo smart working – chiarisce Stefano Uberti Foppa, direttore di ZeroUno, nell’introdurre il dibattito – consente l’evoluzione dei modelli organizzativi in ottica più matriciale e collaborativa e si presenta come un insieme di fattori complessi e articolati da governare, fra i quali le tecnologie rappresentano elementi fondamentali di accelerazione dell’innovazione”.
Qual è oggi la situazione reale nella maggior parte delle aziende? “Quando si parla di smart working – spiega Madini – uno dei primi pensieri che vengono in mente è un approccio al lavoro adatto prima di tutto ai cosiddetti lavoratori della conoscenza, i knowledge workers di cui si è iniziato a parlare diversi decenni fa. Se andiamo a vedere come vivono ancora oggi molti lavoratori della conoscenza, scopriamo che nella vita privata sono cittadini digitali, ma spesso quando entrano in azienda trovano modelli organizzativi e strumenti tecnologici da, per usare una metafora, catene di montaggio”.
Iniziative che partono dal basso
Se oggi molti lavoratori sono già cittadini digitali, “ci si deve porre il problema di come renderli anche digital worker”, continua Madini. “In realtà, le tecnologie digitali hanno già cambiato la nostra vita professionale, permettendoci di lavorare meglio, in tempi più brevi e con minori costi. Ma questo miglioramento spesso è limitato da una serie di vincoli culturali e organizzativi, eredità di un’epoca in cui – a fronte delle tecnologie allora disponibili – il miglior modo per creare valore era trovarsi in un certo posto, in un determinato momento e con specifici strumenti. Oggi nel manufacturing assistiamo alla nascita dell’operaio 4.0, che invece di avvitare bulloni interagisce con robot tramite tablet. In molte aziende, invece, si fatica a comprendere che anche le esigenze dei lavoratori della conoscenza – che possono creare valore in qualsiasi momento e luogo – sono cambiate. La sfida culturale che si devono porre le aziende è chiedersi quali siano le esigenze dei lavoratori della conoscenza oggi, e quali saranno fra cinque anni. E cominciare a eliminare il paradosso per cui i lavoratori, fuori dall’azienda sono dei digital customer, ma spesso nell’impresa in cui lavorano si trovano in un’epoca digitale passata. Se poi oltre all’evoluzione tecnologica-organizzativa si aggiunge una maggiore soddisfazione dei lavoratori, grazie anche a miglioramenti del bilanciamento vita privata-vita lavorativa, si riesce a creare organizzazioni perfette”.
ZeroUno ha invitato a parlare all’evento due rappresentanti di aziende che hanno già compiuto grandi passi avanti in questa direzione: Zurich Insurance Group Italia e Nestlé Italia. “Lo smart working in Zurich – racconta Federica Troya, Head of HR & Services – è nato due anni fa come un’iniziativa human resource, ma con una forte spinta dal basso”. “In Nestlé – le fa eco Giuseppe Pontin, CIO Nestlé Italia, siamo partiti tre anni fa”. È interessante notare come sia in Zurich quanto in Nestlé, il decollo dello smart working sia avvenuto in parallelo con cambiamenti radicali degli spazi di lavoro. “Da noi – spiega Pontin – si era iniziato a ragionare di smart working già diversi anni fa, ma il progetto attuale è partito in coincidenza con lo spostamento in una nuova sede fisica. Un avvenimento con cui hanno coinciso anche altri ripensamenti a livello It, come la decisione di spostare all’esterno il data center, sia in termini hardware che di gestione”. A Zurich, invece, non si è verificato un cambiamento di sede, ma una vera e propria rivoluzione del building attuale. “Nel nostro caso – racconta Troya – abbiamo deciso di eliminare quasi del tutto gli spazi chiusi e abbiamo raddoppiato gli spazi collaborativi”.
Nuovi spazi di lavoro e filosofia win-win
Anche le nuove scelte di carattere architetturale-fisico degli uffici, hanno condotto i responsabili human resource e It delle due aziende a ripensare le dotazioni tecnologiche, con il risultato di una certa omogeneità fra quelle utilizzate in azienda e al di fuori, in una dimensione di smart working. “Le postazioni fisse, le scrivanie personali, non esistono più. In azienda lavoriamo in modalità ”Dynamic”: abbiamo dotato tutti i nostri collaboratori – spiega Troya- di un pc portatile con all’interno un software per poter telefonare. Abbiamo creato più sale riunioni, aree riservate dove poter fare brevi meeting o telefonate, kitchen area per prendere un caffè o fare una pausa per uno snack. Ognuno all’interno del building quindi si può sedere dove vuole, collegare il proprio laptop alla rete aziendale e lavorare, con anche l’ausilio di una tastiera, di un mouse wi-fi e di cuffie con microfono”. “Nel nostro caso – spiega Pontin – abbiamo puntato fin da subito sulla videoconferenza e, in alcune sale, sulla telepresenza. Per quanto riguarda i client abbiamo fatto sì che un numero crescente di attività, anche di tipo tradizionale, si potessero svolgere con smartphone e tablet. Dal punto di vista software, stiamo sperimentando Microsoft Team, anche perché in futuro, oltre favorire la possibilità di lavorare al di fuori dall’ufficio, miriamo ad abilitare modalità di lavoro più agili e collaborative”.
A questo punto, Uberti Foppa, pone una domanda: “Come si può, in un contesto di smart working, effettuare una misurazione oggettiva dei risultati, sia in termini di ottenimento degli obiettivi di business, sia di user experience? “Anche con lo smart working – risponde Troya di Zurich-, così come era prima, i team manager fissano degli obiettivi con i loro collaboratori e ne verificano insieme a loro il raggiungimento. La misurazione dei risultati non va confusa con la volontà di controllare le persone, lo smart working funziona quando da parte dell’azienda c’è fiducia nei propri collaboratori, anche se non si può prescindere dall’adozione di regole. Da noi, per esempio, è richiesta almeno un giorno a settimana la compresenza di tutte le persone di un team, o ancora, è necessario che ogni dipartimento utilizzi un calendario di smart working condiviso per facilitare la reperibilità delle persone. Questa nuova modalità di lavoro funziona se riesce a essere win-win per tutti gli stakeholder”. Quanto ai risultati in termini di user experience, “abbiamo notato una crescita della mentalità collaborativa e in più i dipendenti si sentono più responsabilizzati e valorizzati”.
Fra Byod e sicurezza
Lo smart working richiede un cambiamento di approccio culturale (più di un partecipante all’evento sottolinea, durante il dibattito, l’importanza di “prevedere attività di formazione non solo tecnologica ma culturale sull’organizzazione dello smart working e sul lavoro per obiettivi, da rivolgere soprattutto al middle management, che da un lato gestisce i team, e dall’altro deve garantire risultati di business al top management”), ma è comunque, come sottolinea Pontin di Nestlé “molto technology-demanding”. “Va ricordato – interviene Riccardo Canetta, Regional Sales Director Italy, Turkey & Greece, MobileIron – che lo smart working non è telelavoro. Nel telelavoro si riproducono nelle abitazioni modalità di lavoro e dotazioni tecnologiche analoghe a quelle che i dipendenti troverebbero in azienda. Lo smart working è un fenomeno che si sviluppa soprattutto grazie alla diffusione e all’evoluzione delle tecnologie mobile. Per dirla con una battuta, smart working è poter lavorare anche dal parco”.
Fra i requisiti che deve avere la tecnologia utilizzata dagli smart workers spiccano – come sottolinea Uberti Foppa – “la semplicità di utilizzo e la possibilità, per l’IT, di una governance efficace, semplice e con forti garanzie di security”. “MobileIron – ricorda Canetta – è nata con la nuova era del mobile business. Agli albori il problema maggiore era portare in sicurezza l’email sugli iPad dei top manager; oggi i temi principali sono la centralità dell’utente e la user experience. Gli end user si aspettano di poter utilizzare anche per il lavoro dispositivi e applicazioni che usano nella loro vita personale e che pensano possano renderli più agili e produttivi anche nel business. Se i responsabili It non glielo consentono, può capitare che gli utenti o le line of business li “bypassino”, trovando il modo di utilizzare ugualmente i dispositivi Bring-your-own-device, Byod, o applicazioni come Dropbox”. O Whatsapp, che, come ha segnalato un partecipante all’evento, “in alcune aziende è ancora visto come il diavolo”.
Come garantire allora la sicurezza e la governance in un contesto di smart working in cui sono utilizzati anche device Byod e applicazioni nate per il mondo consumer? “Quando gli utenti si trovano fra le mura aziendali – risponde Canetta – la security può anche essere garantita, in molti casi, da soluzioni di security legacy. Quando gli end user escono però dall’azienda, è necessario fare affidamento su sistemi di EMM (Enterprise Mobility Management)”. Questi, oltre a localizzare e offrire visibilità sui device mobili utilizzati dagli utenti, possono attuare verifiche sullo stato di sicurezza degli endpoint e “forzare” l’installazione di eventuali feature di sicurezza mancanti prima di poter accedere alle applicazioni e ai dati aziendali. “Dare agli utenti laptop, tablet o smartphone e consentirgli di lavorare uno o due giorni da casa non è sufficiente per poter parlare di smart working nel vero senso della parola”.