Avaya, la multinazionale statunitense specializzata in sistemi di comunicazione, è stata inserita recentemente nel World’s Best Employers 2020 di Forbes, ranking annuale che seleziona le migliori aziende del mondo in cui lavorare a detta degli stessi dipendenti. Per chi, come Avaya, ha sempre rivendicato lo stretto legame fra employee e customer experience, il riconoscimento potrebbe essere considerato la conferma che il primo ambito di applicazione di questo approccio è la medesima organizzazione che lo propone. “Avaya ha un’esperienza nei servizi di contact management che parte dal disegno e dalla realizzazione dei primi sistemi di contact center- spiega Armando Capone, Sales Engineering Manager della società -, ma nel contempo ha anche messo in piedi un percorso di Unified Communication parallelo e sinergico con i sistemi per l’automazione dei contact center. Abbiamo capito da tempo che il nostro elemento distintivo sta proprio nella rottura di questa barriera perché è l’intera azienda a dover rispondere e non solo il team del contact center”.
Omnicanalità, una strategia che va oltre l’aggiunta dei touchpoint
Questo metodo si riverbera anche nell’idea propugnata dall’azienda a proposito del concetto di ominicanalità. “La questione non è tanto l’aggiunta di canali – continua Capone -, come avviene nella multicanalità, che in fondo non è altro che uno sfoggio di tecnologia. Il problema è la gestione dei canali. Dietro l’omnicanalità c’è una strategia di coerenza fra i canali stessi”. In base agli ultimi risultati dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience del Politecnico di Milano, solo la metà delle aziende analizzate, pari al 47%, ha introdotto o sta introducendo un integration layer tecnologico in grado di mettere insieme sistemi legacy e touchpoint aziendali. È indice di un’immaturità delle imprese italiane sul versante dell’omnicanalità? “Sicuramente – commenta Capone – siamo di fronte a un caso in cui l’utente è più avanti delle aziende. Oggi larghi strati della popolazione sono in grado di destreggiarsi con app e acquisti su Internet e alle volte riscontriamo che le organizzazioni non hanno ancora assorbito all’interno dei propri processi questo tipo di interazione. Paradossalmente questo periodo così dolente da tanti punti di vista forse darà un’accelerazione verso l’omnicanalità”.
Quella furbizia che servirebbe alle aziende nell’upgrade dei canali
Non si tratta solo di tecnologia, tiene a precisare Capone. “Più si conosce il cliente in ogni momento del customer journey e maggiore è la capacità di soddisfarlo. Un’espressione molto diffusa come quella di ‘non perdere mai la connessione’, intesa non nel senso della connessione Internet ma della connessione totale, nasce da alcune esperienze d’acquisto che possono essere molto complicate. Prevedono, infatti, interazioni fisiche in un negozio, interazioni virtuali in un ambiente self-service magari con un sistema di intelligenza artificiale, interazioni con il contact center attraverso diversi canali”. In questo scenario, occorrerebbe, secondo Capone, un po’ di “furbizia” da parte delle aziende: “Servirebbe una strategia di continuo upgrade del canale. Se da Facebook, per esempio, qualcuno invia un messaggio in cui afferma di non essere soddisfatto del servizio, la prima cosa da fare è isolare il post per modificare il contesto, da uno generale a un contesto uno a uno. Il contact center magari potrebbe contattare il cliente, proporgli un’eventuale sessione video e, una volta risolta la causa dell’insoddisfazione, chiedergli di tornare su Facebook per aggiornare il suo commento”.
Tra outbound e inbound, come cambia il mondo dei contact center
Una strategia aziendale condita da “furbizia” deve tenere conto del fatto che la netta separazione tra outbound e inbound, tipica dei contact center, oggi tende a essere più sfumata. Così come alcuni modelli di collaborazione tradizionale del settore hanno subito una radicale trasformazione a causa dei comportamenti dettati dal distanziamento sociale anti-Covid. “Una delle prassi tipiche del mondo del contact center – esemplifica il Sales Engineering Manager di Avaya – era quella che il responsabile di sala si mettesse fisicamente vicino a un agente e ne seguisse l’attività. Dall’oggi al domani, questa prassi non è stata più possibile. È stato un cambio di paradigma, ma la necessità della presenza del supervisore, seppure non più fisicamente, è rimasta. Un’azienda come la nostra è stata sollecitata da tanti spunti simili a questo che, per certi versi, hanno favorito un’evoluzione funzionale del contact center”. A un livello più ampio, l’esigenza di maggiore flessibilità da parte delle imprese, che la pandemia ha ulteriormente accentuato, ha portato Avaya a proporre il modello della subscription che prevede in un unico contratto di abbonamento mensile software, aggiornamenti e servizi di assistenza.
ACO e Avaya OneCloud CCaaS, le soluzioni in cloud per l’Italia
“La subscription – conclude Capone – è un elemento fondamentale della nostra proposizione, perché non solo sposta l’acquisto da Capex a Opex, ma riflette la stessa semplicità della nostra piattaforma che consente di accompagnare il cliente durante l’intero journey. Su questa strada si colloca anche una delle linee di sviluppo più importanti dell’azienda con l’offerta della propria tecnologia, oltre che on premise, anche in cloud. Entro dicembre sarà lanciata ufficialmente in Italia ACO, Avaya Cloud Office. Frutto della partnership con RingCentral, provider statunitense di soluzioni di comunicazione cloud-based, fornirà una vasta gamma di servizi per l’Unified Communication appoggiandosi al public cloud. Così come, sempre sfruttando la nuvola pubblica, a breve sarà disponibile sul mercato italiano Avaya OneCloud CCaaS, la proposta di contact center interamente as-a-service.