Ict, Hr e risultati aziendali: questioni irrisolte

Meno radicata e incisiva rispetto agli Usa, l’adozione delle tecnologie informatiche al servizio delle risorse umane in Europa ha varie motivazioni ma anche se le differenze si vanno progressivamente assotigliando, rimangono aperti alcuni profondi interrogativi (nella foto Alberto Melgrati, responsabile product development di Istud)

Pubblicato il 23 Gen 2006

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L’adozione delle tecnologie informatiche al servizio delle risorse umane in Europa occidentale è stata e rimane tuttora meno radicata e incisiva rispetto all’esperienza americana. A questa differenza sono state attribuite molte ragioni, che cercheremo qui di seguito di riassumere. La prima motivazione è di tipo macroeconomico e riguarda il diverso impatto della cosiddetta knowledge economy in Usa e nei principali paesi europei. I settori principalmente investiti dalle innovazioni tecnologiche sono infatti quelli che appartengono a business e industrie in cui la creazione del valore è ampiamente associata alla produzione di conoscenza e al capitale intellettuale; settori come l’alta tecnologia, la produzione e i servizi software, i servizi finanziari, le biotecnologie, i prodotti medicali, etc. Ora, come attestano studi recenti, negli Stati Uniti è stato valutato che oltre i tre quarti dei lavoratori sono impiegati nel settore dei servizi ad alto contenuto di conoscenza, mentre questa percentuale scende sotto il 63%, se si considerano Gran Bretagna, Francia e Germania, ovvero una buona parte dei paesi europei all’avanguardia in questi settori. Dunque non dovrebbe stupire che le tecnologie di gestione del capitale umano siano più diffuse laddove è più forte l’impatto della knowledge economy.
Tuttavia, questa motivazione di ordine macroeconomico non è considerata dai più sufficiente, poiché rende conto di uno scarto quantitativo, mentre molto spesso la differenza che si nota girando per le aziende è più di ordine qualitativo. Come suggerisce una recente ricerca (1), in Europa per tutti gli anni Novanta la realizzazione di sistemi Hris (Human resource information systems) è rimasta prevalentemente ancorata a finalità di automazione delle routine interne e delle procedure amministrative, mentre solo negli ultimi anni si è aperta ad attività più core per la funzione (recruiting, programmi formativi e gestione delle performance). In America, il mercato delle cosiddette ‘HR technology solutions’ appare invece più maturo proprio in virtù di una tradizione più consolidata e diffusa di progetti di qualsiasi tipo e ambizione (HR outsourcing, employer branding, automazione dei processi di recruiting, pianificazione delle risorse, ecc.).

Le principali sfide per i team HR (basato su interviste a oltre 300 HR professional a livello mondiale)

Fonte: P. McAteer. 2003. Human Capital strategies. Business Insights Report

Due ragioni molto pertinenti sono state avanzate per giustificare questo divario qualitativo. La prima riguarda l’altissimo numero di operazioni di fusione cui numerosissime società di servizi soprattutto europee sono state sottoposte negli ultimi anni; operazioni che hanno obbligato tali società a focalizzare l’attenzione su investimenti di integrazione e consolidamento tra country o business estremamente differenziati, rinviando a tempi più maturi l’introduzione di sistemi di HR management end-to-end (con buona pace – spesso – dei frastornati dipendenti, il cui senso di appartenenza è obiettivamente un po’ scemato nel frattempo …). La seconda ragione, ancor più convincente, riguarda lo status della funzione risorse umane in molte aziende continentali, che viene generalmente percepito come più basso o meno strategico rispetto all’equivalente americano (‘poco potere formale’ oppure ‘molto potere formale ma poca influenza sulle decisioni che contano’) e quindi meno in grado di veicolare sostanziosi investimenti tecnologici a supporto dei processi di HR. Non è un caso che ancora oggi la questione circa la maggiore o minore strategicità del ruolo delle funzioni risorse umane costituisca motivo di dibattito nel continente mentre nei paesi anglosassoni e in quelli scandinavi la sua centralità non sia ormai più messa in discussione. (2)

Le differenze si assotTigliano ma…
È molto probabile che le differenze tra le due sponde dell’Atlantico si vadano progressivamente assottigliando. Tuttavia, i diversi ritmi di adozione delle tecnologie a supporto delle risorse umane riflettono alcuni interrogativi profondi.
Il primo dei quali riguarda l’effettivo contributo di una ‘buona’ gestione delle risorse umane alla strategia e alle performance dell’impresa. Ai sempre più numerosi manuali pratici o saggi accademici che descrivono il successo di un business a partire dal suo capitale umano e dall’analisi delle caratteristiche dei suoi leader, (3) il mondo reale risponde con numerosi dubbi emergenti da esperienze travagliate. Le esperienze, per esempio, di numerosi dipendenti di medio-alto livello coinvolti senza preavviso in macro-processi di esternalizzazione o fusione; oppure le storie di ignari manager le cui società sono state radicalmente ristrutturate a seguito di operazioni finanziarie completamente in-sondabili – se non ad esito avvenuto. O ancora, i casi frequenti di colletti bianchi le cui linee di riporto o aree di expertise sono in corso di ridefinizione da mesi, senza riuscire ancora a trovare un assetto definitivo. In tutti questi casi, la capacità degli individui di incidere strategicamente sui destini delle aziende in cui lavorano sembra essere scesa ai minimi e comunque non sembra interessare molto a chi definisce le regole del gioco.
A fronte di questa realtà che tanto spesso ci è stata trasferita da quadri e dirigenti nostrani negli ultimi mesi, restano alcuni dati di carattere opposto. Studi empirici recenti mettono in evidenza la priorità assegnata da numerose aziende a una serie di attività di gestione delle risorse umane che sarebbero impensabili se non ipotizzando un ruolo altamente strategico assegnato alla gestione delle persone. Tra queste, emergono la strutturazione di processi di pianificazione e di sviluppo dei talenti, la modifica del ruolo di HR specialist in senso maggiormente strategico, la spinta a iniziative coordinate di employer branding (fenomeno in crescita costante) e soprattutto la sempre più decisa volontà di misurazione delle performance dei servizi HR, sia a livello funzionale (attraverso la valutazione dell’incidenza dei singoli servizi sul budget complessivo della funzione, la misurazione quali-quantitativa delle prestazioni, il ricorso a comparazioni intrasettoriali) sia a livello aziendale (attraverso la generazione di indicatori come il Hcva, Human Capital Value Added). Infine, emerge e viene ribadita l’intenzione di intensificare il livello di supporto tecnologico, visto come leva sia per snellire il peso di processi amministrativi sia per contribuire a sviluppare il ruolo manageriale e integrativo degli specialisti della funzione Risorse Umane.
Una volta stabilito se – e quanto – le risorse umane rappresentino il vero ‘capitale’ strategico, si pone il secondo interrogativo, che riguarda proprio l’effettivo contributo da assegnare alle Information technologies per il buon successo delle attività della funzione HR e dell’impresa in generale. Anche qui il fronte non è compatto, anzi si potrebbe dire che proprio qui le aziende europee mostrano spesso un approccio maggiormente problematico, basato principalmente su due questioni.
La prima questione riguarda l’effettiva funzione che tali sistemi vengono ad assolvere una volta implementati con successo. A partire dalla rapida espansione di Internet e dei sistemi gestionali, la letteratura manageriale e la pratica di business degli ultimi quindici anni hanno spesso enfatizzato il ruolo dell’informatica quale promotore di un modello di azienda più orizzontale e soprattutto trasparente, basato cioè su una progressiva diffusione e condivisione delle informazioni proprio a partire dall’integrazione delle basi dati e dalla possibilità di estensione dell’accesso a prescindere dalla localizzazione geografica degli utenti. A fronte di ciò, però, permangono esperienze e opinioni di segno opposto, che sembrano dimostrare il contributo dell’informatica soprattutto come strumento efficace di rafforzamento del controllo sociale e della gerarchia in un’epoca – quella per l’appunto contrassegnata dal lavoro intangibile e dall’economia della conoscenza – in cui i vecchi sistemi di controllo e ‘sorveglianza’ fisica (dalla timbratura del cartellino alla conta degli output materiali) appaiono sempre meno efficaci. È ovvio che tali dubbi e sospetti diventino maggiormente sensibili non appena le nuove tecnologie ‘minacciano’ di invadere il campo della gestione delle risorse umane, ovvero la manipolazione dei dati e delle informazioni relative a posizioni, carriere, performance individuali, etc.
La seconda questione riguarda invece la natura del lavoro che viene tradizionalmente associata ai ruoli manageriali. Quanto infatti la gestione informatizzata dei processi si può adeguare alla tipica attività di manager ed executive, che appare principalmente basata su relazioni dirette, usate sia per comunicare che per decidere? Una serie di studi a partire da un celebre saggio di Henri Mintzberg (4) hanno affrontato la questione facendo emergere come spesso i manager tendano a basare le proprie decisioni e apprendimenti sulla rapidità permessa dalle confidenze, dalle valutazioni e dalle opinioni che derivano dalla propria rete interpersonale di relazioni, piuttosto che da un processo più analitico e ‘oggettivo’ fondato sulla consultazione di data base strutturati. Da questa prospettiva, il supporto dei sistemi informativi sembra essere messo in discussione tanto più quanto più riguarda decisioni di sviluppo delle carriere, di misurazione delle prestazioni o di selezione dei talenti.
Ovviamente esiste una visione del problema – egualmente radicata ed egualmente supportata da fonti empiriche – che è di segno completamente opposto, ed esalta in particolare la capacità dei moderni knowledge workers – a qualsiasi livello della scala gerarchica si trovino – di filtrare informazioni e relazioni attraverso le nuove tecnologie, in un microcosmo aziendale che sta sempre più privilegiando la delocalizzazione e l’importanza della capacità di prendere decisioni personali o strategiche a partire da serie di fonti e di dati estremamente complesse, che superano necessariamente la sfera delle relazioni interpersonali: è proprio in questo scenario e all’interno di queste premesse che le funzionalità informatiche più evolute a servizio delle human resources (come gli employee portals o i learning management systems, o ancora i sistemi a supporto delle decisioni di pianificazione delle risorse) possono svilupparsi e portare valore.
È probabile insomma che la progressiva penetrazione delle nuove tecnologie nelle funzioni risorse umane si accompagni a una progressiva ridefinizione del ruolo delle funzioni stesse e del ruolo dei manager che le guidano. Tale trasformazione è già peraltro sotto i nostri occhi, e se vogliamo analizzare a fondo dove può portarci, possiamo ancora, per qualche tempo, provare a gettare lo sguardo ad Ovest, oltre Atlantico.


L’IT WORKER CAMBIA, MA NEL NETWORKING È ANCORA EMERGENZA SKILL SHORTAGE
La domanda di specialisti in materia di Information Technology potrebbe contrarsi fino al limite massimo del 40% entro i prossimi cinque anni: la previsione, a firma Gartner, sembrerebbe sfatare un luogo comune che da vari anni interessa chi vede nella carenza di figure professionali qualificate uno dei limiti più importanti all’innovazione tecnologica delle imprese. Come inquadrare, quindi, il dato rilevato dalla società di ricerche? Semplice. Le aziende, soprattutto quelle di medie e grandi dimensioni, incrementeranno in modo sostanziale la ricerca di addetti It “versatili”, in grado cioè di vantare dalla propria attitudini sulle tematiche di business e capacità operative multidisciplinari. I valori che faranno la differenza, in seno alla domanda di It worker, saranno quindi le competenze in fatto di conoscenza e comprensione delle dinamiche e dei processi aziendali, di skill tecnici e gestionali maturati sul campo operando in mercati verticali e in contesti cosiddetti cross-industry.
Se la visione di Gartner conferma la tendenza che vede prioritari gli investimenti in figure in grado di abbinare credenziali importanti sia sotto l’aspetto puramente informatico sia per quanto riguarda le pratiche di business management, uno studio compiuto da Idc in 31 paesi europei (Italia compresa) per conto di Cisco Systems ha ribadito invece come la carenza in azienda di risorse umane dotate di skill tecnologici adeguati sia tutt’oggi un dato di fatto, un problema sempre aperto, con tutte le conseguenze che se ne possono trarre in termini di propensione all’innovazione e capacità di rispondere in modo più competitivo alle variabili del mercato.
La ricerca, che ha messo sotto la lente d’ingrandimento la domanda di figure professionali con competenze di networking di base e avanzate e la reale disponibilità di personale specializzato nel quinquennio 2004/2008, ha detto innanzitutto che i Cio hanno crescente bisogno di forze fresche in materia di network management e nuove tecnologie abilitanti e in secondo luogo che il potenziare programmi di formazione mirati al soddisfacimento di tali bisogni è molto più di una buona azione.
Il quadro della situazione è di fatto riassunto in due cifre: nel 2008 in Europa mancheranno circa 615mila figure professionali specializzate in materia di networking (contro le 230mila preventivate a fine 2005) con un gap fra domanda e offerta che salirà dal 6 all’11,8%. Di queste, circa 500mila sono figure dal profilo avanzato (con competenze certificate di IP Telephony, wireless, storage networking, sicurezza), pari a un buco fra disponibilità ed esigenze del 15,8% (in un terzo dei paesi oggetto d’indagine la forbice sale oltre il 20%, con ulteriori picchi in quelli extra Unione Europea). Dati importanti, in termini puramente numerici, che vanno comunque interpretati in modo preciso: il dato espresso da Idc è riferito infatti a risorse che verrebbero utilizzate a compiti specifici di networking solo per il 25% del loro tempo. Le figure di rete a tempo pieno che creano il vero “skill shortage” sono quindi un quarto di quelle sopra indicate e saranno precisamente oltre 153mila (contro i quasi 58mila di quest’anno), di cui 125mila con competenze avanzate (oltre 40.000 alla fine di quest’anno) i posti scoperti a fine 2008.
Al di là della precisazione statistica, i 950 Cio interpellati (attivi nei settori governativo, industria, telecomunicazioni, sanità e istruzione e appartenenti nel 36% dei casi ad aziende con oltre 1.000 addetti), hanno espresso dati che aprono il fronte a doverosi interrogativi, a cominciare dal come poter colmare questa voragine di competenze che si sta aprendo nel cuore delle aziende europee.
L’Italia, per inciso, contribuirà a questa “involuzione” con circa 5.200 figure tecnologicamente avanzate a tempo pieno mancanti a fine 2008 (rispetto alle 2.600 del 2005) e un gap fra domanda e offerta che salirà dal 7 al 9,8%. Se l’innovazione deve trovare nelle capacità delle risorse umane disponibili in azienda un supporto vitale per svilupparsi in modo adeguato, lo studio di Idc ha tutte le credenziali per essere un preciso, e non certo nuovo, campanello d’allarme. (G.R.)

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